“Il senso del dolore” era stato pubblicato nel 2006 con il titolo “Le lacrime del pagliaccio”.
Rivisto ed aggiornato è stato ristampato da Fandango probabilmente alla luce del successo editoriale di questi ultimi anni.
Con un personaggio come Ricciardi non poteva essere altrimenti.

“Voi credete al destino, commissario?”
“No, signora. Non ci credo. Credo agli uomini e alle loro emozioni. All’amore, all’odio. Alla fame. Al dolore soprattutto”.
“Parlava guardando fisso davanti a sé, la testa incassata nelle spalle e nel bavero rialzato del soprabito. Livia ne osservava il profilo affilato, i capelli ribelli sul viso. Ne percepiva la distanza, come se parlasse da un altro mondo o da un altro tempo”.

Ma vive in una Napoli che ama, raccontata con pennellate d’altri tempi, con struggimento, con passione e pietà. E con orrore. Sono le sue visioni segrete, quelle dei morti ammazzati nell’ultimo istante della loro esistenza. Una capacità sensoriale che ha da quando era bambino e che gli ha condizionato la vita.
Chiuso, solo, insicuro, vive la sua condizione nel dolore, perché è dolore quello che percepisce continuamente nelle visioni dei morti ma anche nella condizione dei vivi. Gli occhi di Ricciardi sono lo specchio di una condizione umana che supera la barriera delle origini e del censo (il commissario è un ricco barone che ha scelto di vivere da borghese). La percezione del dolore e l’immedesimazione in esso, elevano la sua figura in una dimensione umana che travalica il confine delle differenze sociali.
La sua capacità di rimettersi in gioco è favorita dal retaggio di una cultura millenaria che si è sviluppata in parte nel razionale ed in parte nel trascendentale. Un personaggio napoletano ideato da uno scrittore napoletano che si presenta ai lettori in modo controverso, sfrontato eppure timido.
C’è un aspetto di questa contraddizione che non posso condividere. Le qualità umane sono una cosa, le capacità sensoriali un’altra. Non sapremo mai se il personaggio Ricciardi avrebbe avuto le stesse qualità senza quelle capacità. Inoltre in un racconto noir la sensitività può essere accettata se serve a dare colore, se aiuta l’originalità, ma non deve diventare essenziale allo svolgimento ed alla conclusione delle indagini. Il mistero svelato deve essere un fatto razionale, altrimenti deraglia dai canoni del genere poliziesco e diventa altro. Comunque molto bello e piacevolmente raccontato, ma altro.

Alla luce di ciò, secondo me, acquistano un significato diverso molte situazioni del romanzo che vanno valutate in un senso narrativo di più ampio respiro. Alcuni dialoghi come quello con il sacerdote sull’amore e sulla fame acquistano luce viva. L’amore platonico per Enrica, la ragazza vicina di casa, descritto con toni tardoromantici, danno dignità letteraria al romanzo. Le atmosfere teatrali e le maschere degli attori (il titolo originario era “Le lacrime del pagliaccio”) sono chiaramente citazioni della grande tradizione teatrale napoletana. E via di seguito (ci tornerò ancora).

Il turbinio di sensazioni è così variegato che la riflessione finale è quella di aver letto un romanzo a tutto tondo e non di genere.
Ho molta stima della scrittura di De Giovanni e il commissario Ricciardi, pur con le sue contraddizioni o forse anche per questo, è un personaggio originale, fuori dalle mode, da centellinare. Ne condivido molte idee e riflessioni, comportamenti e decisioni, ma non mi immedesimo in lui. Semplicemente lo capisco e lo ammiro.
Ciao