Questa frase, nella sua parte finale, è stata strumentalizzata dai fautori della tesi collaborazionista.
In realtà, almeno all’inizio dell’esilio, i motivi di sofferenza non erano legati solo al suo progressivo allontanamento dai compagni di partito, ma anche alle difficoltà esistenziali in cui trascorse quel periodo. Solo, braccato, senza fondi, malato, aveva la tbc e i medici gli avevano dato poche speranze, ...credevo di non aver più molto da vivere e allora mi misi a scrivere un racconto al quale posi il nome di Fontamara. Mi fabbricai da me un villaggio, col materiale degli amari ricordi e dell'immaginazione, ed io stesso cominciai a viverci dentro. Ne risultò un racconto abbastanza semplice, anzi con delle pagine francamente rozze, ma per l'intensa nostalgia e amore che l'animava, commosse lettori di vari paesi in misura per me inattesa.

Era il 1929 lavorava ancora nella organizzazione clandestina del partito, a volte rientrava in Italia di nascosto, rischiando grosso. In una occasione si salvò grazie all’intervento del suo amico Don Orione, che si era preso cura di lui fin dal 1915 quando rimase orfano per il terremoto in Marsica.

Quando nel ’30 fu espulso dal partito per le sue idee antitotalitarie, rinunciò a difendersi. Nel frattempo uscì Fontamara, la cui prima stesura provvisoria in italiano circolò nell’ambiente dei rifugiati. La prima stampa fu in tedesco, anche se l’avvento del nazismo in Germania ne frenò la diffusione. Ma la Svizzera era un crocevia di fuoriusciti e la bellezza del romanzo trovò subito eco all’estero, dove fu tradotto in molte lingue. In Italia, invece, arrivò dopo la guerra e sempre con difficoltà.