L'austriaco Ivan Illich (1926-2002) è stato senza dubbio il più brillante interprete della folle corsa verso l’autodistruzione in cui è lanciata la contemporaneità postindustriale.
Pensatore così poliedrico da sfuggire a qualsiasi definizione univoca (sacerdote “eretico”, linguista, antropologo, filosofo, sociologo, storico, teologo e naturalista), con la sua irriverente lucidità ha magistralmente smascherato gli ossimori deliranti che incatenano la società globale ad un eterno presente unidimensionale e autoreferenziale, privo di senso, di scopo, di bellezza, di fantasia, di umanità, di gioia, di speranza, di trascendenza e di utopia.
L’individualismo esasperato produce la dissoluzione dell’individualità; si assiste alla fine del lavoro proprio nel momento in cui esso assurge a valore assoluto; l’imperativo dell’agire ad ogni costo e indipendentemente da qualsiasi scopo tramuta l’azione in coazione passiva; la tecnica, creazione umana nata come strumento avente per fine la liberazione dell’uomo dalle schiavitù naturali, è oggi un mezzo autoreferenziale che produce altri mezzi in assenza di fini, asservendo a sé l’uomo e riducendo anch’esso ad uno strumento; i mezzi di comunicazione non sono ambasciatori della costruzione umana della realtà, ma creano essi stessi una rappresentazione del mondo che l’uomo subisce passivamente; i mezzi di trasporto sempre più veloci e numerosi paralizzano il traffico; laddove gli individui si risolvono unicamente nella loro professionalità, il professionista si trasforma in addetto che non necessità più di competenze specifiche perché queste sono state interamente assorbite dalla macchina; la produzione di beni necessari alla soddisfazione di bisogni crea nuovi bisogni… Si potrebbe continuare all'infinito.
Sotto la luce che lo sguardo di Illich getta su essi, gli ossimori si sciolgono come neve al sole con tutta l’evidenza dell’ovvio che, pur essendo sempre stato lì presente, proprio davanti ai nostri occhi, si svela alla coscienza come qualcosa di nuovo e inaspettato.

Fondamento della critica multidimensionale di Illich allo sviluppo illimitato è il concetto di soglie di mutazione, ovvero quelle soglie di sviluppo oltrepassate le quali ogni processo, istituzione, sistema, prima sfocia nel paradosso di ritorcersi contro lo scopo per cui era sorto (prima soglia), poi minaccia di distruggere l’intero corpo sociale (seconda soglia). Egli definisce tutto questo controproduttività.
Illich ha analizzato il fenomeno in diversi ambiti: educazione (Descolarizzare la società), medicina (Nemesi medica: l’espropriazione della salute), trasporti (Energia ed equità).
Sintetizzando al massimo argomentazioni articolatissime e sorrette da una quantità sorprendente di documentazioni, la conclusione alla quale si giunge è che l’unica strategia possibile per tentare l’inversione di senso, o meglio il recupero del senso perduto che ci siamo lasciati alle spalle, al di là della soglia critica, consiste nell’individuare il limite oltre il quale si assiste all’autodistruzione del fine:

“Bisogna prendere coscienza al più presto che i limiti da porre allo sviluppo devono riguardare tanto i beni quanto i servizi, prodotti industrialmente. Ed è la serie di questi limiti che bisogna scoprire e rendere manifesta. Per analizzare il rapporto tra l'uomo e il suo strumento, io propongo qui il concetto di equilibrio multidimensionale della vita umana. In ognuna delle sue dimensioni, questo equilibrio corrisponde a una certa scala naturale. Quando un’attività umana esplicata mediante strumenti supera una certa soglia definita dalla sua scala specifica, dapprima si rivolge contro il proprio scopo, poi minaccia di distruggere l'intero corpo sociale. Occorre dunque determinare con chiarezza queste scale naturali e riconoscere le soglie che delimitano il campo della sopravvivenza umana.
La società, una volta raggiunto lo stadio avanzato della produzione di massa, produce la propria distruzione. La natura viene snaturata. Sradicato, castrato nella sua creatività, l'uomo è rinserrato nella propria capsula individuale. La collettività è governata dal gioco combinato di una polarizzazione estrema e di una specializzazione a oltranza. L'affannosa ricerca di modelli sempre nuovi, cancro del tessuto sociale, accelera a tal punto il mutamento da escludere ogni ricorso ai precedenti come guida per l'azione. Il monopolio del modo di produzione industriale riduce gli uomini a materia prima lavorata dagli strumenti. E tutto questo in misura non più tollerabile. Poco importa che si tratti di un monopolio privato o pubblico: la degradazione della natura, la distruzione dei legami sociali, la disintegrazione dell'uomo non potranno mai servire a uno scopo sociale.[…] Se vogliamo poter dire qualcosa sul mondo futuro, disegnare i contorni di una società a venire che non sia iperindustriale, dobbiamo riconoscere l'esistenza di scale e limiti naturali. L'equilibrio della vita si dispiega in varie dimensioni; fragile e complesso, non oltrepassa certi limiti. Esistono delle soglie che non si possono superare. La macchina non ha soppresso la schiavitù umana, ma le ha dato una diversa configurazione. Infatti, superato il limite, lo strumento da servitore diviene despota. Oltrepassata la soglia, la società diventa scuola, ospedale, prigione, e comincia la grande reclusione. Occorre individuare esattamente dove si trova, per ogni componente dell'equilibrio globale, questo limite critico. Sarà allora possibile articolare in modo nuovo la millenaria triade dell'uomo, dello strumento e della società.”

(Ivan Illich, La convivialità)

La gestione del limite, il controllo dello strumento, porterà alla riappropriazione da parte del soggetto della propria competenza, della propria autonomia di decisione e azione, che gli era stata espropriata dal monopolio dell’iperspecializzazione degli esperti e dal distruttivo strumento dominante, che Illich contrappone al costruttivo strumento conviviale.
Lo strumento conviviale non è altro che lo strumento al quale è stato strappato lo scettro del despota, riportandolo con ciò alla sua originaria “bontà” di mezzo al servizio dell’uomo.
Solo cosi si potrà restaurare una società autenticamente conviviale: il Regno dell’Uomo in quanto essere naturale, non in quanto usurpatore della natura.

“Intendo per convivialità il contrario della produttività industriale. Ognuno di noi si definisce nel rapporto con gli altri e con l'ambiente e per la struttura di fondo degli strumenti che utilizza. Questi strumenti si possono ordinare in una serie continua avente a un estremo lo strumento dominante e all'estremo opposto lo strumento conviviale: il passaggio dalla produttività alla convivialità è il passaggio dalla ripetizione della carenza alla spontaneità del dono. Il rapporto industriale è riflesso condizionato, risposta stereotipata dell'individuo ai messaggi emessi da un altro utente, che egli non conoscerà mai, o da un ambiente artificiale, che mai comprenderà; il rapporto conviviale, sempre nuovo, è opera di persone che partecipano alla creazione della vita sociale. Passare dalla produttività alla convivialità significa sostituire a un valore tecnico un valore etico, a un valore materializzato un valore realizzato. La convivialità è la libertà individuale realizzata nel rapporto di produzione in seno a una società dotata di strumenti efficaci. Quando una società, qualunque essa sia, reprime la convivialità al di sotto di un certo livello, diventa preda della carenza; infatti nessuna ipertrofia della produttività riuscirà mai a soddisfare i bisogni creati e moltiplicati a gara. […]
Chiamo società conviviale una società in cui lo strumento moderno sia utilizzabile dalla persona integrata con la collettività, e non riservato a un corpo di specialisti che lo tiene sotto il proprio controllo. Conviviale è la società in cui prevale la possibilità per ciascuno di usare lo strumento per realizzare le proprie intenzioni. Parlando di «convivialità» dello strumento mi rendo conto di dare un senso in parte nuovo al significato corrente della parola. Lo faccio perché ho bisogno di un termine tecnico per indicare lo strumento che sia scientificamente razionale e destinato all'uomo austeramente anarchico. L'uomo che trova la propria gioia nell'impiego dello strumento conviviale io lo chiamo austero. Egli conosce ciò che lo spagnolo chiama la 'convivencialidad', vive in quella che il tedesco definisce 'Mitmenschlichkeit'. L'austerità non significa infatti isolamento o chiusura in se stessi. Per Aristotele come per Tommaso d'Aquino, è il fondamento dell'amicizia. Trattando del gioco ordinato e creatore, Tommaso definisce l'austerità come una virtù che non esclude tutti i piaceri, ma soltanto quelli che degradano o ostacolano le relazioni personali. L'austerità fa parte di una virtù più fragile, che la supera e la include, ed è la gioia, l''eutrapelia', l'amicizia.”

(Ivan Illich, La convivialità)

Non facile, ma possibile.
Come scrisse Lewis Mumford:

“Impossibile? No. Per quanto la scienza e la tecnica abbiano ampiamente dirottato dal loro più esatto itinerario, esse ci hanno insegnato almeno una lezione: niente è impossibile."
(Lewis Mumford, Tecnica e cultura)