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Discussione: Racconti di Natale

          
  1. #1
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    Racconti di Natale

    Leggendo la discussione sulle poesie natalizie mi è venuto in mente un brevissimo, amaro racconto di Friedrich Dürrenmatt che spero possa inaugurare una sezione del forum dedicata ai racconti di ambiente o atmosfera natalizia.
    Natale

    Era Natale. Attraversavo la vasta pianura. La neve era come vetro. Faceva freddo. L'aria era morta. Non un movimento, non un suono. L'orizzonte era circolare. Nero il cielo. Morte le stelle. Sepolta ieri la luna. Non sorto il sole. Gridai. Non mi udii. Gridai ancora. Vidi un corpo disteso sulla neve. Era Gesù Bambino. Bianche e rigida le membra. L'aureola un disco gelato. Presi il bambino in mano. Gli mossi su e giù le braccia. Gli sollevai le palpebre. Non aveva occhi. Io avevo fame. Mangiai l'aureola. Sapeva di pane stantio. Gli staccai la testa con un morso. Marzapane stantio. Proseguii.


    Friedrich Dürrenmatt (1942)


    Da Racconti (Universale Economica Feltrinelli)


  2. #2
    Patrizia
    Guest

    Sogno di Natale - Luigi Pirandello

    Sentivo da un pezzo sul capo inchinato tra le braccia come l'impressione d'una mano lieve, in atto tra di carezza e di protezione. Ma l'anima mia era lontana, errante pei luoghi veduti fin dalla fanciullezza, dei quali mi spirava ancor dentro il sentimento, non tanto però che bastasse al bisogno che provavo di rivivere, fors'anche per un minuto, la vita come immaginavo si dovesse in quel punto svolgere in essi.

    Era festa dovunque: in ogni chiesa, in ogni casa: intorno al ceppo, lassù; innanzi a un Presepe, laggiù; noti volti tra ignoti riuniti in lieta cena; eran canti sacri, suoni di zampogne, gridi di fanciulli esultanti, contese di giocatori... E le vie delle città grandi e piccole, dei villaggi, dei borghi alpestri o marini, eran deserte nella rigida notte. E mi pareva di andar frettoloso per quelle vie, da questa casa a quella, per godere della raccolta festa degli altri; mi trattenevo un poco in ognuna, poi auguravo:

    - Buon Natale - e sparivo...

    Ero già entrato così, inavvertitamente, nel sonno e sognavo. E nel sogno, per quelle vie deserte, mi parve a un tratto d'incontrar Gesù errante in quella stessa notte, in cui il mondo per uso festeggia ancora il suo natale. Egli andava quasi furtivo, pallido, raccolto in sé, con una mano chiusa sul mento e gli occhi profondi e chiari intenti nel vuoto: pareva pieno d'un cordoglio intenso, in preda a una tristezza infinita.

    Mi misi per la stessa via; ma a poco a poco l'immagine di lui m'attrasse così, da assorbirmi in sé; e allora mi parve di far con lui una persona sola. A un certo punto però ebbi sgomento della leggerezza con cui erravo per quelle vie, quasi sorvolando, e istintivamente m'arrestai. Subito allora Gesù si sdoppiò da me, e proseguì da solo anche più leggero di prima, quasi una piuma spinta da un soffio; ed io, rimasto per terra come una macchia nera, divenni la sua ombra e lo seguii.

    Sparirono a un tratto le vie della città: Gesù, come un fantasma bianco splendente d'una luce interiore, sorvolava su un'alta siepe di rovi, che s'allungava dritta infinitamente, in mezzo a una nera, sterminata pianura. E dietro, su la siepe, egli si portava agevolmente me disteso per lungo quant'egli era alto, via via tra le spine che mi trapungevano tutto, pur senza darmi uno strappo.

    Dall'irta siepe saltai alla fine per poco su la morbida sabbia d'una stretta spiaggia: innanzi era il mare; e, su le nere acque palpitanti, una via luminosa, che correva restringendosi fino a un punto nell'immenso arco dell'orizzonte. Si mise Gesù per quella via tracciata dal riflesso lunare, e io dietro a lui, come un barchetto nero tra i guizzi di luce su le acque gelide.

    A un tratto, la luce interiore di Gesù si spense: traversavamo di nuovo le vie deserte d'una grande città. Egli adesso a quando a quando sostava a origliare alle porte delle case più umili, ove il Natale, non per sincera divozione, ma per manco di denari non dava pretesto a gozzoviglie.

    - Non dormono... - mormorava Gesù, e sorprendendo alcune rauche parole d'odio e d'invidia pronunziate nell'interno, si stringeva in sé come per acuto spasimo, e mentre l'impronta delle unghie restavagli sul dorso delle pure mani intrecciate, gemeva: - Anche per costoro io son morto...

    Andammo così, fermandoci di tanto in tanto, per un lungo tratto, finché Gesù innanzi a una chiesa, rivolto a me, ch'ero la sua ombra per terra, non mi disse:

    - Alzati, e accoglimi in te. Voglio entrare in questa chiesa e vedere.

    Era una chiesa magnifica, un'immensa basilica a tre navate, ricca di splendidi marmi e d'oro alla volta, piena d'una turba di fedeli intenti alla funzione, che si rappresentava su l'altar maggiore pomposamente parato, con gli officianti tra una nuvola d'incenso. Al caldo lume dei cento candelieri d'argento splendevano a ogni gesto le brusche d'oro delle pianete tra la spuma dei preziosi merletti del mensale.

    - E per costoro - disse Gesù entro di me - sarei contento, se per la prima volta io nascessi veramente questa notte.

    Uscimmo dalla chiesa, e Gesù, ritornato innanzi a me come prima posandomi una mano sul petto riprese:

    - Cerco un'anima, in cui rivivere. Tu vedi ch'ìo son morto per questo mondo, che pure ha il coraggio di festeggiare ancora la notte della mia nascita. Non sarebbe forse troppo angusta per me l'anima tua, se non fosse ingombra di tante cose, che dovresti buttar via. Otterresti da me cento volte quel che perderai, seguendomi e abbandonando quel che falsamente stimi necessario a te e ai tuoi: questa città, i tuoi sogni, i comodi con cui invano cerchi allettare il tuo stolto soffrire per il mondo... Cerco un'anima, in cui rivivere: potrebbe esser la tua come quella d'ogn'altro di buona volontà.

    - La città, Gesù? - io risposi sgomento. - E la casa e i miei cari e i miei sogni?

    - Otterresti da me cento volte quel che perderai – ripeté Egli levando la mano dal mio petto e guardandomi fisso con quegli occhi profondi e chiari.

    - Ah! io non posso, Gesù... - feci, dopo un momento di perplessità, vergognoso e avvilito, lasciandomi cader le braccia sulla persona.

    Come se la mano, di cui sentivo in principio del sogno l'impressione sul mio capo inchinato, m'avesse dato una forte spinta contro il duro legno del tavolino, mi destai in quella di balzo, stropicciandomi la fronte indolenzita. E qui, è qui, Gesù, il mio tormento! Qui, senza requie e senza posa, debbo da mane a sera rompermi la testa.

  3. #3
    Master Member L'avatar di Rosy
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    Smile Bel Thread!

    BEL THREAD.
    ( e guai a chi mi dice che sono parole melense. Qualche volta ci vogliono anche quelle...)
    Apprezzo molto.

    Ogni anno scolastico leggo ai bambini che ancora non lo conoscono, il bellissimo - e profondo- racconto di Buzzati, " Ce n'è troppo di Natale".
    Non ho ancora trovato, negli anni, un bambino a cui non piaccia.E poi ci fa riflettere un pò sul consumismo sfrenato, su tutti gli inutili orpelli di cui siamo schiavi in occasione di questa festa....

    CE N'E' TROPPO DI NATALE.

    Nel paradiso degli animali l’anima del somarello chiese all’anima del bue:
    - Ti ricordi per caso quella notte, tanti anni fa, quando ci siamo trovati in una specie di capanna e là, nella mangiatoia…?
    - Lasciami pensare… Ma sì – rispose il bue. – Nella mangiatoia, se ben ricordo, c’era un bambino appena nato.
    - Bravo. E da allora sapresti immaginare quanti anni sono passati?
    - Eh no, figurati. Con la memoria da bue che mi ritrovo.

    - Millenovecentosettanta, esattamente.
    - Accidenti!
    - E a proposito, lo sai chi era quel bambino?
    - Come faccio a saperlo? Era gente di passaggio, se non sbaglio. Certo, era un bellissimo bambino.
    L’asinello sussurrò qualche cosa in un orecchio al bue.
    - Ma no! – fece costui – Sul serio? Vorrai scherzare spero.
    - La verità. Lo giuro. Del resto io l’avevo capito subito…
    - Io no – confessò il bue – Si vede che tu sei più intelligente. A me non aveva neppure sfiorato il sospetto. Benché, certo, a vedersi, era un fantolino straordinario.
    - Bene, da allora gli uomini ogni hanno fanno grande festa per l’anniversario della nascita. Per loro è la giornata più bella. Tu li vedessi. È il tempo della serenità, della dolcezza, del riposo dell’animo, della pace, delle gioie famigliari, del volersi bene. Perfino i manigoldi diventano buoni come agnelli. Lo chiamano Natale. Anzi, mi viene un’idea. Già che siamo in argomento, perché non andiamo a dare un’occhiata?
    - Dove?
    - Giù sulla terra, no!
    - Ci sei già stato?
    - Ogni anno, o quasi, faccio una scappata. Ho un lasciapassare speciale. Te lo puoi fare dare anche tu. Dopotutto, qualche piccola benemerenza possiamo vantarla, noi due.
    - Per via di aver scaldato il bimbo col fiato?
    - Su, vieni, se non vuoi perdere il meglio. Oggi è la Vigilia.
    - E il lasciapassare per me?
    - Ho un cugino all’ufficio passaporti.
    Il lasciapassare fu concesso. Partirono. Lievi lievi, come mammiferi disincarnati. Planarono sulla terra, adocchiarono un lume; vi puntarono sopra. Il lume era una grandissima città. Ed ecco il somarello e il bue aggirarsi per le vie del centro. Trattandosi di spirito, automobili e tram gli passavano attraverso senza danno, e alla loro volta le due bestie passavano attraverso i muri come se fossero fatti d’aria. Così potevano vedere bene tutto quanto.
    Era uno spettacolo impressionante, mille lumi, le vetrine, le ghirlande, gli abeti e lo sterminato ingorgo di automobili, e il vertiginoso formicolio della gente che andava e veniva, entrava e usciva, tutti carichi di pacchi e pacchetti, con un’espressione ansiosa e frenetica, come se fossero inseguiti. Il somarello sembrava divertito. Il bue si guardava intorno con spavento.
    - Senti, amico: mi avevi detto che mi portavi a vedere il Natale. Ma devi esserti sbagliato. Qui stanno facendo la guerra.
    - Ma non vedi come sono tutti contenti?
    - Contenti? A me sembrano dei pazzi.
    - Perché tu sei un provinciale, caro il mio bue. Tu non sei pratico degli uomini moderni, tutto qui. Per sentirsi felici, hanno bisogno di rovinarsi i nervi.
    Per togliersi da quella confusione, il bue, valendosi della sua natura di spirito, fece una svolazzatine e si fermò a curiosare a una finestra del decimo piano. E l’asinello, gentilmente, dietro.
    Videro una stanza riccamente ammobiliata e nella stanza, seduta ad un tavolo, una signora molto preoccupata.
    Alla sua sinistra, sul tavolo, un cumulo alto mezzo metro di carte e cartoncini colorati, alla sua destra una pila di cartoncini bianchi. Con l’evidente assillo di non perdere un minuto, la signora, sveltissima, prendeva uno dei cartoncini colorati lo esaminava un istante poi consultava grossi volumi, subito scriveva su uno dei cartoncini bianchi, lo infilava in una busta, scriveva qualcosa sulla busta, chiudeva la busta quindi prendeva dal mucchio di destra un altro cartoncino e ricominciava la manovra. Quanto tempo ci vorrà a smaltirlo? La sciagurata ansimava.
    - La pagheranno, bene, immagino, – fece il bue – per un lavoro simile.
    - Sei ingenuo, amico mio. Questa è una signora ricchissima e della migliore società.
    - E allora perché si sta massacrando così?
    - Non si massacra. Sta rispondendo ai biglietti di auguri.
    - Auguri? E a che cosa servono?
    - Niente. Zero. Ma chissà come, gli uomini ne hanno una mania.
    Si affacciarono, più in là, a un’altra finestra. Anche qui, gente che, trafelava, scriveva biglietti su biglietti, la fronte imperlata di sudore.
    Dovunque le bestie guardassero, ecco uomini e donne fare pacchi, preparare buste, correre al telefono, spostarsi fulmineamente da una stanza all’altra portando spaghi, nastri, carte, pendagli e intanto entravano giovani inservienti con la faccia devastata portando altri pacchi, altri scatole altri fiori altri mucchi di auguri. E tutto era precipitazione ansia fastidio confusione e una terribile fatica. Dappertutto lo stesso spettacolo. Andare e venire, comprare e impaccare spedire e ricevere imballare e sballare chiamare e rispondere e tutti correvano tutti ansimavano con il terrore di non fare in tempo e qualcuno crollava boccheggiando.
    - Mi avevi detto – osservò il bue – che era la festa della serenità, della pace.
    - Già – rispose l’asinello. – Una volta infatti era così. Ma, cosa vuoi, da qualche anno, sarà questione della società dei consumi… Li ha morsi una misteriosa tarantola. Ascoltali, ascoltali.
    Il bue tese le orecchie.
    Per le strade nei negozi negli uffici nelle fabbriche uomini e donne parlavano fitto fitto scambiandosi come automi delle monotone formule buon Natale auguri auguri a lei grazie altrettanto auguri buon Natale. Un brusio che riempiva la città.
    - Ma ci credono? – chiese il bue – Lo dicono sul serio? Vogliono davvero tanto bene al prossimo?
    L’asinello tacque.
    - E se ci ritirassimo un poco in disparte? – suggerì il bovino. – Ho ormai la testa che è un pallone… Sei proprio sicuro che non sono usciti tutti matti?
    - No, no. È semplicemente Natale.
    - Ce n’è troppo, allora. Ti ricordi quella notte a Betlemme, la capanna, i pastori, quel bel bambino. Era freddo anche lì, eppure c’era una pace, una soddisfazione. Come era diverso.
    - E quelle zampogne lontane che si sentivano appena appena.
    - E sul tetto, ti ricordi, come un lieve svolazzamento. Chissà che uccelli erano.
    - Uccelli? Testone che non sei altro. Angeli erano.
    - E la stella? Non ti ricordi che razza di stella, proprio sopra la capanna? Chissà che non ci sia ancora. Le stelle hanno una vita lunga.
    - Ho idea di no – disse l’asino – c’è poca aria di stelle, qui. Alzarono il muso a guardare, e infatti non si vedeva niente, sulla città c’era un soffitto di caligine e di smog.
    Dino Buzzati
    " Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi non ascolta musica..."
    M.Medeiros

  4. #4
    Patrizia
    Guest

    RACCONTO DI NATALE - Dino Buzzati

    Tetro e ogivale è l'antico palazzo dei vescovi, stillante salnitro dai muri, rimanerci è un supplizio nelle notti d'inverno. E l'adiacente cattedrale è immensa, a girarla tutta non basta una vita, e c'è un tale intrico di cappelle e sacrestie che, dopo secoli di abbandono, ne sono rimaste alcune pressoché inesplorate. Che farà la sera di Natale - ci si domanda – lo scarno arcivescovo tutto solo, mentre la città è in festa? Come potrà vincere la malinconia? Tutti hanno una consolazione: il bimbo ha il treno e pinocchio, la sorellina ha la bambola, la mamma ha i figli intorno a sé, il malato una nuova speranza, il vecchio scapolo il compagno di dissipazioni, il carcerato la voce di un altro dalla cella vicina. Come farà l'arcivescovo? Sorrideva lo zelante don Valentino, segretario di Sua Eccellenza, udendo la gente parlare così. L'arcivescovo ha Dio, la sera di Natale. Inginocchiato solo soletto nel mezzo della cattedrale gelida e deserta a prima vista potrebbe quasi far pena, e invece se si sapesse! Solo soletto non è, non ha neanche freddo, né si sente abbandonato. Nella sera di Natale Dio dilaga nel tempio, per l'arcivescovo, le navate ne rigurgitano letteralmente, al punto che le porte stentano a chiudersi; e, pur mancando le stufe, fa così caldo che le vecchie bisce bianche si risvegliano nei sepolcri degli storici abati e salgono dagli sfiatatoi dei sotterranei sporgendo gentilmente la testa dalle balaustre dei confessionali.

    Così, quella sera il Duomo; traboccante di Dio. E benché sapesse che non gli competeva, don Valentino si tratteneva perfino troppo volentieri a disporre l'inginocchiatoio del presule. Altro che alberi, tacchini e vino spumante. Questa, una serata di Natale. Senonché in mezzo a questi pensieri, udì battere a una porta. "Chi bussa alle porte del Duomo" si chiese don Valentino "la sera di Natale? Non hanno ancora pregato abbastanza? Che smania li ha presi?" Pur dicendosi così andò ad aprire e con una folata di vento entrò un poverello in cenci.

    "Che quantità di Dio! " esclamò sorridendo costui guardandosi intorno "Che bellezza! Lo si sente perfino di fuori.

    Monsignore, non me ne potrebbe lasciare un pochino? Pensi, è la sera di Natale. "

    "E' di Sua Eccellenza l'arcivescovo" rispose il prete. "Serve a lui, fra un paio d'ore. Sua Eccellenza fa già la vita di un santo, non pretenderai mica che adesso rinunci anche a Dio! E poi io non sono mai stato monsignore."

    "Neanche un pochino, reverendo? Ce n'è tanto! Sua Eccellenza non se ne accorgerebbe nemmeno!"

    "Ti ho detto di no... Puoi andare... Il Duomo è chiuso al pubblico" e congedò il poverello con un biglietto da cinque lire.

    Ma come il disgraziato uscì dalla chiesa, nello stesso istante Dio disparve. Sgomento, don Valentino si guardava intorno, scrutando le volte tenebrose: Dio non c'era neppure lassù. Lo spettacoloso apparato di colonne, statue, baldacchini, altari, catafalchi, candelabri, panneggi, di solito così misterioso e potente, era diventato all'improvviso inospitale e sinistro. E tra un paio d'ore l'arcivescovo sarebbe disceso.

    Con orgasmo don Valentino socchiuse una delle porte esterne, guardò nella piazza. Niente. Anche fuori, benché fosse Natale, non c'era traccia di Dio. Dalle mille finestre accese giungevano echi di risate, bicchieri infranti, musiche e perfino bestemmie. Non campane, non canti.

    Don Valentino uscì nella notte, se n'andò per le strade profane, tra fragore di scatenati banchetti. Lui però sapeva l'indirizzo giusto. Quando entrò nella casa, la famiglia amica stava sedendosi a tavola. Tutti si guardavano benevolmente l'un l'altro e intorno ad essi c'era un poco di Dio.

    "Buon Natale, reverendo" disse il capofamiglia. "Vuol favorire?"

    "Ho fretta, amici" rispose lui. "Per una mia sbadataggine Iddio ha abbandonato il Duomo e Sua Eccellenza tra poco va a pregare. Non mi potete dare il vostro? Tanto, voi siete in compagnia, non ne avete un assoluto bisogno."

    "Caro il mio don Valentino" fece il capofamiglia. "Lei dimentica, direi, che oggi è Natale. Proprio oggi i miei figli dovrebbero far a meno di Dio? Mi meraviglio, don Valentino."

    E nell'attimo stesso che l'uomo diceva così Iddio sgusciò fuori dalla stanza, i sorrisi giocondi si spensero e il cappone arrosto sembrò sabbia tra i denti.

    Via di nuovo allora, nella notte, lungo le strade deserte. Cammina cammina, don Valentino infine lo rivide. Era giunto alle porte della città e dinanzi a lui si stendeva nel buio, biancheggiando un poco per la neve, la grande campagna. Sopra i prati e i filari di gelsi, ondeggiava Dio, come aspettando. Don Valentino cadde in ginocchio.

    "Ma che cosa fa, reverendo?" gli domandò un contadino. "Vuoi prendersi un malanno con questo freddo?"

    "Guarda laggiù figliolo. Non vedi?"

    Il contadino guardò senza stupore. "È nostro" disse. "Ogni Natale viene a benedire i nostri campi."

    " Senti " disse il prete. "Non me ne potresti dare un poco? In città siamo rimasti senza, perfino le chiese sono vuote. Lasciamene un pochino che l'arcivescovo possa almeno fare un Natale decente."

    "Ma neanche per idea, caro il mio reverendo! Chi sa che schifosi peccati avete fatto nella vostra città. Colpa vostra. Arrangiatevi."

    "Si è peccato, sicuro. E chi non pecca? Ma puoi salvare molte anime figliolo, solo che tu mi dica di sì."

    "Ne ho abbastanza di salvare la mia!" ridacchiò il contadino, e nell'attimo stesso che lo diceva, Iddio si sollevò dai suoi campi e scomparve nel buio.

    Andò ancora più lontano, cercando. Dio pareva farsi sempre più raro e chi ne possedeva un poco non voleva cederlo (ma nell'atto stesso che lui rispondeva di no, Dio scompariva, allontanandosi progressivamente).

    Ecco quindi don Valentino ai limiti di una vastissima landa, e in fondo, proprio all'orizzonte, risplendeva dolcemente Dio come una nube oblunga. Il pretino si gettò in ginocchio nella neve. "Aspettami, o Signore " supplicava "per colpa mia l'arcivescovo è rimasto solo, e stasera è Natale!"

    Aveva i piedi gelati, si incamminò nella nebbia, affondava fino al ginocchio, ogni tanto stramazzava lungo disteso. Quanto avrebbe resistito?

    Finché udì un coro disteso e patetico, voci d'angelo, un raggio di luce filtrava nella nebbia. Aprì una porticina di legno: era una grandissima chiesa e nel mezzo, tra pochi lumini, un prete stava pregando. E la chiesa era piena di paradiso.

    "Fratello" gemette don Valentino, al limite delle forze, irto di ghiaccioli "abbi pietà di me. Il mio arcivescovo per colpa mia è rimasto solo e ha bisogno di Dio. Dammene un poco, ti prego."

    Lentamente si voltò colui che stava pregando. E don Valentino, riconoscendolo, si fece, se era possibile, ancora più pallido.

    "Buon Natale a te, don Valentino" esclamò l'arcivescovo facendosi incontro, tutto recinto di Dio. "Benedetto ragazzo, ma dove ti eri cacciato? Si può sapere che cosa sei andato a cercar fuori in questa notte da lupi?"

  5. #5
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    (sera della Vigilia)
    "Riattacco, mi lascio cadere sul letto, e mi addormento prima di raggiungerlo. Un cane enorme mi sveglia, un'ora dopo. Mi ha assalito dal fianco. Sono rotolato giù dal letto sotto la violenza dell'urto e rimango bloccato contro il muro. La bestia ne approfitta per immobilizzarmi completamente e iniziare a farmi la toilette che io stesso non ho avuto tempo di fare questa mattina. Dal canto suo puzza come una discarica comunale. Dalla sua lingua emana un tanfo di pesce rancido, sperma di tigre, jet-set canino.
    Dico: - Regalo?
    Balza all'indietro, siede sull'ignobile culo e, la lingua penzoloni, mi guarda, con la testa inclinata di lato. Frugo nella tasca della giacca, tiro fuori la pallina impacchettata, gliela mostro e annuncio: - Per Julius, Buon Natale.
    Di sotto, nell'ex chincaglieria, l'odore di noce moscata dello sformato di patate aleggia ancora quando da tempo ho trascinato i bambini nel cuore profondo del racconto. Gli occhi mi ascoltano al di sopra dei pigiami mentre i piedi dondolano nel vuoto dei letti a castello.
    [...]
    Racconto quindi, fino a quando un generale sbattere di ciglia annuncia l'ora del coprifuoco. Quando chiudo la porta alle mie spalle, l'albero di Natale brilla nell'oscurità. Non me la sono cavata troppo male; nemmeno per un istante hanno pensato di avventurarsi sui regali. Salvo Julius, che si ingegna da due ore a disfare il suo pacchettino senza strappare la carta.
    [...]
    (mattina dopo, Natale)
    Quando raggiungo i bambini, dopo che Caregga se n'è andato, l'albero di Natale brilla di tutte le sue mille luci, come si suol dire. Jèrèmy e il Piccolo lanciano strilli di gabbiano in un oceano di carta da regalo. Thérèse, sopracciglia professionali, ricopia il racconto di ieri sera su una macchina con margherita nuova fiammante. Louna, in visita, guarda il quadretto della famiglia, l'occhio lucido e i piedi a papera come se fosse incinta di sei mesi. Noto l'assenza di Laurent. Clara mi veleggia incontro, in un abito di jersey ce le fa un bel corpo di fiamma. Tiene in mano la vecchia Leica che da anni mi invidiava in silenzio e che ho finito per sacrificare alla sua passione per la fotografia. Il vestito è stato scelto da Théo. In questo campo, bisogna sempre affidarsi agli uomini che preferiscono gli uomini. (Forse è un pregiudizio.)
    - Tieni, Benjamin, è per te.
    Quel che Clara mi porge è graziosamente impacchettato. Sta in una scatola di cartone, sta nella carta velina. Un paio di pantofole piene di panna montata, proprio quello che desideravo, è Natale.

    Il paradiso degli orchi Daniel Pennac


  6. #6
    Io L'avatar di dolores
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    Don Camillo - Giovannino Guareschi

    Si era ormai sotto Natale e bisognava tirar fuori d'urgenza dalla cassetta le statuette del presepe, ripulirle, ritoccarle col colore, riparare le ammaccature. Ed era già tardi, ma don Camillo stava ancora lavorando in canonica. Sentì bussare alla finestra e, poco dopo, andò ad aprire perchè si trattava di Peppone.
    Peppone si sedette mentre don Camillo riprendeva le sue faccende, e tutt'e due tacquero per un bel po'. [...]
    Don Camillo prese a ritoccare con la biacca la barba di San Giuseppe.
    "In questo porco mondo un galantuomo non può più vivere!" esclamò Peppone dopo un po'. [...]
    Don Camillo continuò a ritoccare la barba di San Giuseppe. Poi passò a ritoccargli la veste.
    "Ne avete ancora per molto?" si informò Peppone con ira.
    "Se mi dai una mano, in poco si finisce."
    Peppone era meccanico ed aveva mani grandi come badili e dita enormi che facevano fatica a piegarsi. Però, quando uno aveva un cronometro da accomodare, bisognava che andasse da Peppone. Perchè è così, e sono proporio gli omoni grossi che son fatti per le cose piccolissime. [...]
    "Figuratevi! Adesso mi metto a pitturare i santi!" borbottò. "Non mi avrete mica preso per il sagrestano!"
    Don Camillo pescò in fondo alla cassetta e tirò su un affarino rosa, grosso quanto un passerotto, ed era proprio il Bambinello. Peppone si trovò in mano la statuetta senza sapere come, e allora prese un pennellino e cominciò a lavorare di fino. Lui di qua e don Camillo di là dalla tavola, senza potersi vedere in faccia perchè c'era, fra loro, il barbaglio della lucerna.
    "E' un mondo porco" disse Peppone. "Non ci si può fidare di nessuno, se uno vuol dire qualcosa. Non mi fido neppure di me stesso."
    Don Camillo era assorbitissimo dal suo lavoro: c'era da rifare tutto il viso della Madonna. Roba fine.
    "E di me ti fidi?" chiese don Camillo con indifferenza.
    "Non lo so."
    "Prova a dirmi qualcosa, così vedi."
    Peppone finì gli occhi del Bambinello: la cosa più difficile. Poi rinfrescò il rosso delle piccole labbra. "Vorrei piantare lì tutto" disse Peppone. "Ma non si può."
    "Chi te lo impedisce?"
    "Impedirmelo? Io piglio una stanga di ferro e faccio fuori un reggimento."
    "Hai paura?"
    "Mai avuto paura al mondo!"
    "Io sì, Peppone. Qualche volta ho paura."
    Peppone intinse il pennello.
    "Be', qualche volta anch'io" disse Peppone. E appena si sentì. [...]

    Ormai il Bambinello era finito e, fresco di colore e così rosa e chiaro, pareva che brillasse in mezzo alla enorme mano scura di Peppone. Peppone lo guardò e gli parve di sentir sulla palma il tepore di quel piccolo corpo. Depose con delicatezza il Bambinello rosa sulla tavola e don Camillo gli mise vicino la Madonna.
    "Il mio bambino sta imparando la poesia di Natale" annunciò con fierezza Peppone. "Sento che tutte le sere sua madre gliela ripassa prima che si addormenti. E' un fenomeno."
    "Lo so" ammise don Camillo. [...] Poi, vicino alla Madonna curva sul Bambinello, pose la statuetta del somarello.
    "Questo è il figlio di Peppone, questa la moglie di Peppone e questo è Peppone" disse don Camillo toccando per ultimo il somarello.
    "E questo è don Camillo!" esclamò Peppone prendendo la statuetta del bue e ponendola vicino al gruppo.
    "Bah! Fra bestie ci si comprende sempre" concluse don Camillo.
    Uscendo, Peppone si ritrovò nella cupa notte padana, ma ormai era tranquillissomo perchè sentiva ancora nel cavo della mano il tepore del Bambinello rosa. Poi udì risuonarsi all'orecchio le parole della poesia, che ormai sapeva a memoria.
    "Quando, la sera della vigilia, me la dirà, sarà una cosa magnifica!" si rallegrò. "Anche quando comanderà la democrazia proletaria, le poesie bisognerà lasciarle stare. Anzi, renderle obbligatorie!"

    Il fiume scorreva placido e lento, lì a due passi, sotto l'argine, ed era anch'esso una poesia: una poesia cominciata quando era cominciato il mondo e ancora continuava. E per arrotondare e levigare il più piccolo dei miliardi di sassi in fondo all'acqua, c'eran voluti mille anni.
    E soltanto fra venti generazioni l'acqua avrà levigato un nuovo sassetto.
    E fra mille anni la gente correrà a seimila chilometri l'ora su macchine a razzo superatomico e per far cosa? Per arrivare in fondo all'anno e rimanere a bocca aperta davanti allo stesso Bambinello di gesso che, una di queste sere, il compagno Peppone ha ripitturato col pennellino.
    “Non ho bisogno di tempo per sapere come sei: conoscersi è luce improvvisa” (P. Salinas)

  7. #7
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    Il Natale di Martin
    di Leone Tolstoj

    In una certa città viveva un ciabattino, di nome Martin Avdeic. Lavorava in una stanzetta in un seminterrato, con una finestra che guardava sulla strada. Da questa poteva vedere soltanto i piedi delle persone che passavano, ma ne riconosceva molte dalle scarpe, che aveva riparato lui stesso. Aveva sempre molto da fare, perché lavorava bene, usava materiali di buona qualità e per di più non si faceva pagare troppo.
    Anni prima, gli erano morti la moglie e i figli e Martin si era disperato al punto di rimproverare Dio. Poi un giorno, un vecchio del suo villaggio natale, che era diventato un pellegrino e aveva fama di santo, andò a trovarlo. E Martin gli aprì il suo cuore.
    - Non ho più desiderio di vivere - gli confessò. - Non ho più speranza.
    Il vegliardo rispose: « La tua disperazione è dovuta al fatto che vuoi vivere solo per la tua felicità. Leggi il Vangelo e saprai come il Signore vorrebbe che tu vivessi.

    Martin si comprò una Bibbia. In un primo tempo aveva deciso di leggerla soltanto nei giorni di festa ma, una volta cominciata la lettura, se ne sentì talmente rincuorato che la lesse ogni giorno.
    E cosi accadde che una sera, nel Vangelo di Luca, Martin arrivò al brano in cui un ricco fariseo invitò il Signore in casa sua. Una donna, che pure era una peccatrice, venne a ungere i piedi del Signore e a lavarli con le sue lacrime. Il Signore disse al fariseo: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e non mi hai dato acqua per i piedi. Questa invece con le lacrime ha lavato i miei piedi e con i suoi capelli li ha asciugati... Non hai unto con olio il mio capo, questa invece, con unguento profumato ha unto i miei piedi.
    Martin rifletté. Doveva essere come me quel fariseo. Se il Signore venisse da me, dovrei comportarmi cosi? Poi posò il capo sulle braccia e si addormentò.

    All'improvviso udì una voce e si svegliò di soprassalto. Non c'era nessuno. Ma senti distintamente queste parole: - Martin! Guarda fuori in strada domani, perché io verrò.
    L'indomani mattina Martin si alzò prima dell'alba, accese il fuoco e preparò la zuppa di cavoli e la farinata di avena. Poi si mise il grembiule e si sedette a lavorare accanto alla finestra. Ma ripensava alla voce udita la notte precedente e così, più che lavorare, continuava a guardare in strada. Ogni volta che vedeva passare qualcuno con scarpe che non conosceva, sollevava lo sguardo per vedergli il viso. Passò un facchino, poi un acquaiolo. E poi un vecchio di nome Stepanic, che lavorava per un commerciante del quartiere, cominciò a spalare la neve davanti alla finestra di Martin che lo vide e continuò il suo lavoro.
    Dopo aver dato una dozzina di punti, guardò fuori di nuovo. Stepanic aveva appoggiato la pala al muro e stava o riposando o tentando di riscaldarsi. Martin usci sulla soglia e gli fece un cenno. - Entra· disse - vieni a scaldarti. Devi avere un gran freddo.
    - Che Dio ti benedica!- rispose Stepanic. Entrò, scuotendosi di dosso la neve e si strofinò ben bene le scarpe al punto che barcollò e per poco non cadde.
    - Non è niente - gli disse Martin. - Siediti e prendi un po' di tè.
    Riempi due boccali e ne porse uno all'ospite. Stepanic bevve d'un fiato. Era chiaro che ne avrebbe gradito un altro po'. Martin gli riempi di nuovo il bicchiere. Mentre bevevano, Martin continuava a guardar fuori della finestra.
    - Stai aspettando qualcuno? - gli chiese il visitatore.
    - Ieri sera- rispose Martin - stavo leggendo di quando Cristo andò in casa di un fariseo che non lo accolse coi dovuti onori. Supponi che mi succeda qualcosa di simile. Cosa non farei per accoglierlo! Poi, mentre sonnecchiavo, ho udito qualcuno mormorare: "Guarda in strada domani, perché io verrò".
    Mentre Stepanic ascoltava, le lacrime gli rigavano le guance. - Grazie, Martin Avdeic. Mi hai dato conforto per l'anima e per il corpo.

    Stepanic se ne andò e Martin si sedette a cucire uno stivale. Mentre guardava fuori della finestra, una donna con scarpe da contadina passò di lì e si fermò accanto al muro. Martin vide che era vestita miseramente e aveva un bambino fra le braccia. Volgendo la schiena al vento, tentava di riparare il piccolo coi propri indumenti, pur avendo indosso solo una logora veste estiva. Martin uscì e la invitò a entrare. Una volta in casa, le offrì un po' di pane e della zuppa. - Mangia, mia cara, e riscaldati - le disse.
    Mangiando, la donna gli disse chi era: - Sono la moglie di un soldato. Hanno mandato mio marito lontano otto mesi fa e non ne ho saputo più nulla. Non sono riuscita a trovare lavoro e ho dovuto vendere tutto quel che avevo per mangiare. Ieri ho portato al monte dei pegni il mio ultimo scialle.
    Martin andò a prendere un vecchio mantello. - Ecco - disse. - È un po' liso ma basterà per avvolgere il piccolo.
    La donna, prendendolo, scoppiò in lacrime. - Che il Signore ti benedica.
    - Prendi - disse Martin porgendole del denaro per disimpegnare lo scialle. Poi l’accompagnò alla porta.

    Martin tornò a sedersi e a lavorare. Ogni volta che un'ombra cadeva sulla finestra, sollevava lo sguardo per vedere chi passava. Dopo un po', vide una donna che vendeva mete da un paniere. Sulla schiena portava un sacco pesante che voleva spostare da una spalla all'altra. Mentre posava il paniere su un paracarro, un ragazzo con un berretto sdrucito passò di corsa, prese una mela e cercò di svignarsela. Ma la vecchia lo afferrò per i capelli. Il ragazzo si mise a strillare e la donna a sgridarlo aspramente.
    Martin corse fuori. La donna minacciava di portare il ragazzo alla polizia. - Lascialo andare, nonnina - disse Martin. - Perdonalo, per amor di Cristo.
    La vecchia lasciò il ragazzo. - Chiedi perdono alla nonnina - gli ingiunse allora Martin.
    Il ragazzo si mise a piangere e a scusarsi. Martin prese una mela dal paniere e la diede al ragazzo dicendo: - Te la pagherò io, nonnina.
    - Questo mascalzoncello meriterebbe di essere frustato - disse la vecchia.
    - Oh, nonnina - fece Martin - se lui dovesse essere frustato per aver rubato una mela, cosa si dovrebbe fare a noi per tutti i nostri peccati? Dio ci comanda di perdonare, altrimenti non saremo perdonati. E dobbiamo perdonare soprattutto a un giovane sconsiderato.
    - Sarà anche vero - disse la vecchia - ma stanno diventando terribilmente viziati.
    Mentre stava per rimettersi il sacco sulla schiena, il ragazzo sì fece avanti. - Lascia che te lo porti io, nonna. Faccio la tua stessa strada.
    La donna allora mise il sacco sulle spalle del ragazzo e si allontanarono insieme.

    Martin tornò a lavorare. Ma si era fatto buio e non riusciva più a infilare l'ago nei buchi del cuoio. Raccolse i suoi arnesi, spazzò via i ritagli di pelle dal pavimento e posò una lampada sul tavolo. Poi prese la Bibbia dallo scaffale.
    Voleva aprire il libro alla pagina che aveva segnato, ma si apri invece in un altro punto. Poi, udendo dei passi, Martin si voltò. Una voce gli sussurrò all'orecchio: - Martin, non mi riconosci?
    - Chi sei? - chiese Martin.
    - Sono io - disse la voce. E da un angolo buio della stanza uscì Stepanic, che sorrise e poi svanì come una nuvola.
    - Sono io - disse di nuovo la voce. E apparve la donna col bambino in braccio. Sorrise. Anche il piccolo rise. Poi scomparvero.
    - Sono io - ancora una volta la voce. La vecchia e il ragazzo con la mela apparvero a loro volta, sorrisero e poi svanirono.
    Martin si sentiva leggero e felice. Prese a leggere il Vangelo là dove si era aperto il libro. In cima alla pagina lesse: Ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi dissetaste, fui forestiero e mi accoglieste. In fondo alla pagina lesse: Quanto avete fatto a uno dei più piccoli dei miei fratelli, l’avete fatto a me.
    Così Martin comprese che il Salvatore era davvero venuto da lui quel giorno e che lui aveva saputo accoglierlo.
    A ciascuno e' affidato il compito di vegliare sulla solitudine dell'altro.

  8. #8
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    La Piccola Fiammiferaia



    Faceva un freddo terribile, nevicava e calava la sera - l'ultima sera dell'anno, per l'appunto, la sera di San Silvestro. In quel freddo, in quel buio, una povera bambinetta girava per le vie, a capo scoperto, a piedi nudi. Veramente, quand'era uscita di casa, aveva certe babbucce; ma a che le eran servite? Erano grandi grandi - prima erano appartenute a sua madre, - e così larghe e sgangherate, che la bimba le aveva perdute, traversando in fretta la via, per scansare due carrozze, che s'incrociavano con tanta furia... Una non s'era più trovata, e l'altra se l'era presa un monello, dicendo che ne avrebbe fatto una culla per il suo primo figliuolo.


    E così la bambina camminava coi piccoli piedi nudi, fatti rossi e turchini dal freddo: aveva nel vecchio grembiale una quantità di fiammiferi, e ne teneva in mano un pacchetto. In tutta la giornata, non era riuscita a venderne uno; nessuno le aveva dato un soldo; aveva tanta fame, tanto freddo, e un visetto patito e sgomento, povera creaturina... I fiocchi di neve le cadevano sui lunghi capelli biondi, sparsi in bei riccioli sul collo; ma essa non pensava davvero ai riccioli! Tutte le finestre scintillavano di lumi; per le strade si spandeva un buon odorino d'arrosto; era la vigilia del capo d'anno: a questo pensava.




    Nell'angolo formato da due case, di cui l'una sporgeva innanzi sulla strada, sedette abbandonandosi, rannicchiandosi tutta, tirandosi sotto le povere gambine. Il freddo la prendeva sempre più, ma non osava tornare a casa: riportava tutti i fiammiferi e nemmeno un soldino. Il babbo l'avrebbe certo picchiata; e, del resto, forse che non faceva freddo anche a casa? Abitavano proprio sotto il tetto, ed il vento ci soffiava tagliente, sebbene le fessure più larghe fossero turate, alla meglio, con paglia e cenci. Le sue manine erano quasi morte dal freddo.


    Ah, quanto bene le avrebbe fatto un piccolo fiammifero! Se si arrischiasse a cavarne uno dallo scatolino, ed a strofinarlo sul muro per riscaldarsi le dita... Ne cavò uno, e trracc! Come scoppiettò! come bruciò! Mandò una fiamma calda e chiara come una piccola candela, quando la parò con la manina. Che strana luce! Pareva alla piccina d'essere seduta dinanzi ad una grande stufa di ferro, con le borchie e il coperchio di ottone lucido: il fuoco ardeva così allegramente, e riscaldava così bene!... La piccina allungava già le gambe, per riscaldare anche quelle... ma la fiamma si spense, la stufa scomparve, - ed ella si ritrovò là seduta, con un pezzettino di fiammifero bruciato tra le mani.


    Ne accese un altro: anche questo bruciò, rischiarò e il muro, nel punto in cui la luce batteva, divenne trasparente come un velo.


    La bambina vide proprio dentro nella stanza, dove la tavola era apparecchiata, con una bella tovaglia d'una bianchezza abbagliante, e con finissime porcellane; nel mezzo della tavola, l'oca arrostita fumava, tutta ripiena di mele cotte e di prugne. Il più bello poi fu che l'oca stessa balzò fuor del piatto, e, col trinciante ed il forchettone piantati nel dorso, si diede ad arrancare per la stanza, dirigendosi proprio verso la povera bambina... Ma il fiammifero si spense, e non si vide più che il muro opaco e freddo.


    Accese un terzo fiammifero. La piccolina si trovò sotto ad un magnifico albero, ancora più grande e meglio ornato di quello che aveva veduto, a traverso ai vetri dell'uscio, nella casa del ricco negoziante, la sera di Natale.




    Migliaia di lumi scintillavano tra i verdi rami, e certe figure colorate, come quelle che si vedono esposte nelle mostre dei negozii, guardavano la piccina. Ella stese le mani... e il fiammifero si spense. I lumicini di Natale volarono su in alto, sempre più in alto; ed ella si avvide allora ch'erano le stelle lucenti. Una stella cadde, e segnò una lunga striscia di luce sul fondo oscuro del cielo.


    "Qualcuno muore!" - disse la piccola, perchè la sua vecchia nonna (l'unica persona al mondo che l'avesse trattata amorevolmente, - ma ora anche essa era morta,) la sua vecchia nonna le aveva detto: "Quando una stella cade, un'anima sale a Dio."


    Strofinò contro il muro un altro fiammifero, che mandò un grande chiarore all'intorno; ed in quel chiarore la vecchia nonna apparve, tutta raggiante, e mite, e buona...




    "Oh, nonna!" - gridò la piccolina: "Prendimi con te! So che tu sparisci, appena la fiammella si spegne, come sono spariti la bella stufa calda, l'arrosto fumante, e il grande albero di Natale!" - Presto presto, accese tutti insieme i fiammiferi che ancora rimanevano nella scatolina: voleva trattenere la nonna. I fiammiferi diedero tanta luce, che nemmeno di pieno giorno è così chiaro: la nonna non era stata mai così bella, così grande... Ella prese la bambina tra le braccia, ed insieme volarono su, verso lo Splendore e la Gioia, su, in alto, in alto, dove non c'è più fame, nè freddo, nè angustia, - e giunsero presso Dio.


    Ma nell'angolo tra le due case, allo spuntare della fredda alba, fu veduta la piccina, con le gotine rosse ed il sorriso sulle labbra, - morta assiderata nell'ultima notte del vecchio anno. La prima alba dell'anno nuovo passò sopra il cadaverino, disteso là, con le scatole dei fiammiferi, di cui una era quasi tutta bruciata. "Ha cercato di scaldarsi..." - dissero. Ma nessuno seppe tutte le belle cose che aveva vedute; nessuno seppe tra quanta luce era entrata, con la vecchia nonna, nella gioia della nuova Alba.


    Hans Christian Andersen
    "...Comme on n’a pas le choix il nous reste le cœur"

  9. #9
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    Il racconto di Natale di Auggie Wren

    Ho sentito questa storia da Auggie Wren. Siccome Auggie non ne viene fuori molto bene, almeno non bene come egli avrebbe voluto, mi ha chiesto di non usare il suo nome vero. A parte questo, tutti i fatti sul portafoglio smarrito, sulla donna cieca e sulla cena di Natale sono come lui me li ha raccontati.
    Auggie ed io ci conosciamo da quasi undici anni ormai. Lavora dietro il bancone di una tabaccheria su Court Street a Brooklyn downtown, e visto che quello è l’unico posto che importa le sigarette olandesi che fumo io, vado lì abbastanza spesso. Per lungo tempo non gli ho prestato molta attenzione. Era soltanto lo strano omuncolo che indossava una felpa blu sudata col cappuccio, che vendeva sigarette e riviste, il buontempone malizioso che aveva sempre qualche cosa spiritosa da dire sul tempo, i Mets o i politici di Washington, e questo era il limite.
    Ma poi un giorno, diversi anni fa, gli capitò di stare a guardare una rivista del negozio, e fini per caso su una recensione di uno dei miei libri. Sapeva che ero io perché una foto accompagnava la recensione, e dopo questo le cose cambiarono tra di noi. Non ero più soltanto un cliente per Auggie, ero diventato una persona distinta. Alla maggior parte della gente non potrebbe interessare di meno libri e scrittori, ma venne fuori che Auggie considerava se stesso un artista. Ora che aveva rotto il secreto su chi fossi, mi considerò un alleato, un confidente, un commilitone. Per dire la verità, trovai questa cosa abbastanza imbarazzante. Quindi, quasi inevitabilmente, venne il momento in cui mi chiese se avessi voluto guardare le sue fotografie. Considerato il suo entusiasmo e la sua buona volontà sembrava non esserci possibilità di scoraggiarlo.
    Dio sa cosa mi aspettavo. Tanto per cominciare non era ciò che Auggie mi mostrò il giorno seguente. In una piccola stanza senza finestre sul retro del negozio, aprì un cartone e ne tiro fuori dodici identici album fotografici. Questo era il lavoro della sua vita, disse, e non gli prendeva neanche cinque minuti al giorno per farlo. Ogni mattina da dodici anni a questa parte, si era appostato all’angolo tra Atlantic avenue e Clinton street, alle sette precise e aveva scattato una singola fotografia a colori esattamente dallo stesso angolo. Il progetto è arrivato ora a più di quattromila fotografie. Ogni album rappresenta un anno differente, e tutte le fotografie sono ordinate in sequenza dal primo Gennaio al trentuno Dicembre, con le date meticolosamente segnate sotto ciascuna di esse.
    Mentre scorrevo gli album e cominciavo a studiare il lavoro di Auggie, non sapevo cosa pensare. La mia prima impressione fu che quello era la cosa più strana e più assurda che avessi mai visto. Tutte le foto erano identiche. L’intero progetto era un fredda scarica di ripetizioni, la stessa strada e gli stessi palazzi, ancora e ancora, un inesorabile delirio di immagini ridondanti. Non potevo pensare a niente da dire ad Auggie così ho continuato a voltare le pagine, annuendo con la testa facendo finta di apprezzare. Anche Auggie sembrava imperturbabile mentre mi guardava con un largo sorriso sul volto, ma dopo aver visto che ero stato lì per diversi minuti, improvvisamente mi interruppe e disse: “Vai troppo svelto. Non ci arriverai mai se non rallenti.”
    Aveva ragione, ovviamente. Se non ti prendi il tempo per vedere, non imparerai mai a guardare niente. Presi un altro album e mi sforzai di procedere più attentamente. Prestai maggiore attenzione ai dettegli, presi nota dei cambiamenti del clima, osservai le variazioni d’angolatura della luce con il procedere delle stagioni. In breve fui in grado di notare le differenze del flusso del traffico, di anticipare il ritmo dei giorni (il tumulto delle mattine lavorative, la relativa tranquillità dei fine settimana, il contrasto tra i Sabati e le Domeniche). E poi, poco alla volta ho iniziato a riconoscere i volti delle persone sullo sfondo, i passanti sulla loro strada per il lavoro, le stesse persone nello stesso punto ogni mattina, mentre vivono un instante delle loro vite nel campo della macchina fotografica di Auggie.
    Una volta che li ho riconosciuti, ho iniziato a studiare la loro situazione, la maniera con cui si trascinavano da un giorno all’altro, cercando di scoprire il loro stato d’animo attraverso queste informazioni superficiali, come se potessi immaginarmi storie per loro, come se potessi penetrare nel dramma invisibile chiuso dentro i loro corpi. Presi un altro album. Non ero più annoiato e neanche imbarazzato come ero all’inizio. Auggie stava fotografando il tempo, realizzai, sia il tempo naturale che quello umano, e lo stava facendo piantandosi in un minuscolo angolo del mondo, desiderando che fosse il proprio mentre vigilava nello spazio che aveva scelto per se stesso. Mentre mi guardava leggere attentamente il suo lavoro, Auggie seguitava a sorridere con soddisfazione. Quindi, quasi stesse leggendo nei miei pensieri, cominciò a recitare un verso di Shakespeare: “Tomorrow and tomorrow and tomorrow,” moromorò sottovoce, “time creeps on its petty pace.” Capii che sapeva esattamente che cosa stava facendo.
    Questo è stato più di duemila foto fa. Da quella volta Auguie ed io abbiamo discusso molte volte del suo lavoro, ma è stato soltanto la settimana scorsa che ho saputo come si era procurato la macchina fotografica e come ha iniziato a fotografare la prima volta. E’ il soggetto della storia che mi ha raccontato e sto ancora sforzandomi di dargli un senso.
    Poco prima di quella settimana un tizio del New York Times, mi chiama e mi chiede se avessi voluto scrivere un racconto che sarebbe apparso nel giornale le mattina di Natale. Il mio prima impulso fu quello di dire di no, ma l’uomo fu ammaliante e persistente, e alla fine della conversazione gli dissi che avrei tentato. Dal momento che riattaccai il telefono, mi sentii sprofondare nel panico profondo. Che cosa sapevo del natale? Mi sono chiesto. Che cose ne sapevo dello scrivere racconti su commissioni?
    Ho passato i successivi giorni nella disperazione, combattendo con i fantasmi di Dickens, O. Henry e altri campioni dello spirito natalizio. L’esatta frase Racconto di Natale comportava spiacevoli associazioni per me, evocando insopportabili sfoghi di miele e melassa. Anche nella migliore delle ipotesi i racconti natalizi erano non più che sogni di appagamento, favole per adulti, e che possa essere dannato se avessi permesso a me stesso di scrivere qualche cosa del genere. E ancora come potrebbe qualcuno prefiggersi di scrivere una storia di Natale non sentimentale? Era una contraddizione in termini, un paradosso, un rompicapo vero e proprio.
    Si potrebbe immaginare meglio un cavallo da corsa senza gambe o un passero senza ali.
    Non sono arrivato da nessuna parte. Il martedì uscii per fare una lunga passeggiata, sperando che l’aria mi avrebbe schiarito le idee. Appena passato mezzogiorno mi fermai al negozio di sigari per rifornire la mia scorta e li c’era Auggie, in piedi dietro la cassa come sempre. Mi chiese come stavo. Senza realmente volerlo mi ritrovai a sfogare i miei problemi con lui. “Un racconto di natale?” disse dopo che avevo finito. “Tutto qui? Se mi offri il pranzo, amico mio, ti racconterò il miglior racconto di natale che hai mai sentito. E ti garantisco che ogni parola di esso è vera.
    Camminammo verso il quartiere dove stava Jack, un buco allegro dove servivano degli ottimi sandwich e pieno di fotografie dei Dogers appese al muro. Trovammo un tavolo in fondo, ordinammo da mangiare e quindi Auggie si lanciò nella sua storia.
    “Era l’estate del settantadue” disse. ” Un ragazzino arrivò una mattina e iniziò a rubare dal negozio. Doveva avere circa diciannove o venti anni e credo di non aver visto mai un taccheggiatore più patetico nella mia vita. Stava vicino alla rastrelliera dei giornali vicino al muro lontano e si riempiva la tasca del cappotto di libri. Al momento attorno alla cassa era affollato così all’inizio non lo vidi. Ma quando ho notato che cosa stava combinando, iniziai a strillare. Partii come un coniglio a nel tempo in cui mi sono districato per uscire da dietro la cassa stava già correndo a tutta velocità giù per Atlantic Avevue. L’ho inseguito per un po’ ma poi ho rinunciato. Aveva lasciato cadere qualcosa lungo la strada e siccome non me la sentivo più di correre mi piegai a vedere che cos’era.Risultò che fosse il suo portafoglio. Non c’erano soldi dentro, ma c’era la sua patente con tre o quattro fototessere. Penso che avrei dovuto chiamare i poliziotti e farlo arrestare. Avevo il suo nome e l’indirizzo dalla patente, ma mi sentivo un po’ dispiaciuto per lui. Era un piccolo misero punk, e una volta che avevo visto quelle foto nel portafoglio non riuscii ad essere veramente arrabbiato con lui. Robert Goodwin. Era questo il suo nome. In una delle foto, mi ricordo, stava con il braccio intorno alla madre o alla nonna. In un’altra stava seduto all’età si nove o dieci anni, vestito con l’uniforme da baseball e un grande sorriso stampato in volto. Non né ho avuto il fegato, ecco. Era probabilmente drogato, ho immaginato. Un ragazzo povero di Brooklyn senza molta fortuna e chi se ne fregava di un paio di rivistaccie, in ogni caso?
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  10. #10
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    Il racconto di Natale di Auggie Wren - parte due :)

    “Alla fine mi tenni stretto il portafoglio. Di tanto in tanto sentivo l’impulso di spedirglielo indietro ma ho continuato a rimandare e non ho fatto mai niente. Quindi arriva il natale ed io non ho nulla da fare.Il capo solitamente mi invita da lui a passare la giornata ma quell’anno lui e la sua famiglia erano giù in Florida a far visita ai parenti. Quindi sto seduto nel mio appartamento quella mattina sentendomi un po’ dispiaciuto per me stesso quando vedo il portafoglio di Robert Goodwin che giaceva in una mensola in cucina. Penso, cazzo perché non fare qualche cosa di carino per una volta così mi metto il cappotto e vado fuori per restituire il portafoglio di persona.L’indirizzo era su a Boerum Hill, da qualche parte nei quartieri popolari. Si congelava quel giorno e mi ricordo di essermi perso diverse volte cercando di trovare il palazzo giusto. Tutto sembrava uguale in quel posto, tu continui ad andare intorno allo stesso posto pensando di essere altrove. In ogni caso raggiungo finalmente l’appartamento che sto cercando e suono il campanello. Non succede niente. Deduco che non c’è nessuno, ma provo ancora giusto per essere sicuro. Aspetto un po’ di più e proprio nel momento in cui sto per rinunciare, sento qualcuno trascinarsi verso la porta. Una voce di donna anziana mi chiede chi è e io dico che sto cercando Robert Goodwin. ‘Sei tu Robert?’ dice la vecchia, e quindi da circa quindici giri alla serratura e apre la porta.“Doveva avere massimo ottanta, forse novant’anni e la prima cosa che ho notato di lei è che era cieca. ‘Sapevo che saresti venuto Robert’ disse ‘Sapevo che non ti saresti scordato di tua nonna Ethel a natale. Quindi allarga le braccia come se stesse per abbracciarmi.“Non avevo molto tempo per pensare, capisci. Dovevo dire qualcosa velocemente e prima che sapessi che cosa stesse succedendo potei sentire le parole uscire dalla mia bocca. ‘E’ vero nonna Ethel’, dissi. ‘Sono tornato per venire a trovarti a natale. Non chiedermi perché l’ho fatto. Non ne ho idea. Forse non la volevo dispiacere o qualcosa del genere, non lo so. Mi è venuto fuori così e dopo questa vecchia donna improvvisamente mi stava abbracciando davanti alla porta, ed io la stavo abbracciando a mia volta.” Non dissi esattamente che ero suo nipote. Non con molte parole in ogni caso ma questa fu la conseguenza. Non stavo neanche cercando di ingannarla. Era come un gioco che entrambi avevamo deciso di fare senza dover discutere delle regole. Voglio dire, quella donna sapeva che non ero suo nipote Robert. Era vecchia e mezza matta ma non era così andata da non poter distinguere tra un estraneo e il sangue del suo sangue. Ma la rendeva felice fare finta, e visto che io non avevo niente di meglio da fare comunque, ero contento di proseguire con lei.“Quindi entrammo nell’appartamento e passammo la giornata insieme. Il posto era veramente un letamaio, potrei aggiungere, ma cosa puoi aspettarti da una donna cieca che fa da sola i lavori di casa? Ogni volta che mi faceva una domanda su come andava le mentivo. Le ho raccontato che avevo trovato un buon lavoro al negozio di sigari, le ho raccontato che stavo per sposarmi, le ho raccontato un centinaio di storie simpatiche, e lei si comportava come se credeva ad ognuna di esse. ‘Va bene, Robert’ diceva muovendo la testa mentre sorrideva. ‘Ho sempre saputo che le cose avrebbero funzionato per te.’Dopo un po’ ho iniziato ad avere abbastanza fame. Non sembrava che ci fosse da mangiare a sufficienza in casa allora sono andato in un negozio in zona e ho portato un casino di cose. Un pollo precotto, una zuppa vegetale, una vaschetta di insalata di patate, una torta di cioccolato, ogni genere di cose. Ethel aveva un paio di bottiglie di vino stipate in camera, e alla fine tra lei e me mettemmo decentemente insieme una dignitosa cena di nataleEntrambi diventammo un po’ alticci dal vino, mi ricordo, e dopo che il cibo finì uscimmo per sederci in sala, dove le sedie erano più comode. Dovevo fare pipì, quindi mi scusai e andai nel bagno in fondo al corridoio. Questo è dove le cose fecero una nuova svolta. Era già abbastanza sciocco fare questo gioco del nipote di Ethel, ma quello che feci dopo fu assolutamente folle e non mi perdonerò mai per questo.“Vado in bagno e ammassata davanti al muro vicino alla doccia, vedo una pila di sei o sette macchine fotografiche. Nuove trentacinque millimetri, ancora nelle scatole, merce di prima qualità. Immagino che quello è opera del vero Robert, un magazzino per i suoi ultimi furti. Non avevo mai fatto una foto in vita mia, e sicuramente non avevo mai rubato niente, ma nel momento che ho visto quelle macchine in bagno, ho deciso che volevo averne una per me. Così. E senza neanche fermarmi a pensarci, ho preso una di quelle scatole sotto il braccio e sono tornato in salotto.“Non dovevo essermi assentato per più di tre minuti, ma in quel tempo nonna Ethel si era addormentata nella sedia. Troppo Chianti, immagino. Andai in cucina per lavare i piatti e lei dormì durante tutto il baccano russando come un bambino. Non c’era nessun motivo per svegliarla così decisi di andare. Non avrei neanche potuto scriverle un biglietto per salutarla, considerando che era ceca e tutto il resto, perciò me ne andai soltanto. Lasciai il portafoglio di suo nipote sul tavolo, presi di nuovo la macchina fotografica e camminai fuori dall’appartamento. E questa è la fine della storia.”“Sei mai tornato a trovarla?” chiesi
    “Una volta” disse. “Circa tre o quattro mesi dopo. Mi sentivo veramente male per aver rubato la macchina fotografica, non la avevo neanche usata ancora. Finalmente mi misi in testa di restituirla, ma Ethel non era più lì. Non so che cosa le è successo, ma qualcun altro si era trasferito nell’appartamento, e non seppe dirmi dove era.
    “Probabilmente è morta.”
    “Già, probabilmente.”
    “Questo significa che ha passato il suo ultimo natale con te”
    “Penso di sì. Non l’ho mai vista in questo modo.”
    “E’ stata una buona azione, Auggie. E’ stata una cosa carina che hai fatto per lei.”
    “Le ho mentito, e dopo ho anche rubato da lei. Non vedo come tu puoi chiamarla buona azione.”
    “L’hai fatta felice. E le macchine erano in ogni caso rubate. Non è come se la persona da cui le hai prese le possedeva sul serio.”
    “Qualsiasi cosa per l’arte, eh, Paul?”
    “Non lo avrei detto. Ma alla fine hai usato le macchine per un buono scopo.”
    “E ora hai la tua storia di natale, no?
    “Sì,” dissi. “Penso di sì.”
    Mi fermai un momento per studiare Auggie mentre un gigno malizioso si apriva sul suo volto. Non potevo esserne sicuro, ma i suoi occhi in quel momento apparivano misteriosi, così carichi di una specie di bagliore interiore, che improvvisamente mi venne in mente che avesse costruito tutta la storia. Ero sul punto di chiedergli se mi avesse raccontando frottole, ma poi mi resi conto che non lo avrei mai fatto. Sono stato convinto a crederci e questo era l’unica cosa che contava. Fino a che c’è qualcuno che ci crede non esiste storia che non può essere vera.
    “Sei un asso, Augie.” Dissi. “Grazie per essere così d’aiuto.”
    “Ogni volta” rispose, guardandomi ancora con quella luce maniacale negli occhi. “Dopo tutto, se non puoi condividere i tuoi segreti con gli amici, che razza di amico saresti?”
    “Mi sa che te ne devo uno.”
    “No, non devi. Buttala giù così come te l’ho raccontata io e non mi devi nulla.”
    “Eccetto il pranzo”
    “E’ vero. Eccetto il pranzo.”
    Contraccambiai il sorriso di Auggie con un sorriso dei miei, dopo chiamai la cameriera e le chiesi il conto.

    Paul Austen
    "...Comme on n’a pas le choix il nous reste le cœur"

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