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Discussione: Ignazio Silone

          
  1. #31
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    Grazie a te, Carlo. Per quanto mi riguarda è un'eccezione il fatto che tu possa imparare qualcosa da me, perchè sono io che quotidianamente imparo qualcosa di nuovo, sui più disparati argomenti, dai tuoi messaggi (odio il termine "post", non so con quale altro sostituirlo). Sul serio, lo dico senza piaggeria.
    Su Silone ho un sacco di cose in testa da scrivere, ma mi manca il tempo per organizzarle in modo decente. E poi c'è che mi piacerebbe fare una specie di recensione per ogni libro, ma non essendo fresca di lettura mi è rimasta solo l'essenza di ciascuno. Perciò così non riesco a scrivere niente che meriti. E' ora che cominci a ri-leggere come saggiamente fai tu. Senza la rilettura si perdono tante, troppe cose per la strada, e ci sono opere che non ci possiamo permettere di ricordare solo approssimativamente.
    In questo caso, ad esempio, una particolarmente brillante e ironica di Silone è La scuola dei dittatori. Vedrò di impegnarmi per riesumarne i ricordi.

  2. #32
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    Anch’io ringrazio Sir per l’incoraggiamento e ringrazio Alice per il pungolo che mi ha dato di riscoprire vecchie passioni.
    Non è facile parlare di Silone, era un uomo di parte che scriveva in modo partigiano ma onesto. E’ esattamente il mio punto di vista e mi pongo di fronte ai suoi libri con l’umiltà di coglierne la ragione e le passioni, ma anche di ricavarne una mia personale interpretazione, che è poi quella che cerco di riportare.
    Ho appena riletto Fontamara. Quante cose da dire…

  3. #33
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    In questo splendido stralcio di una prefazione scritta per una mai realizzata edizione americana in lingua italiana di Fontamara, datata 25 giugno 1936, Silone parla della ”universalità del cafone” e dell’inesistente villaggio di Fontamara.
    Si potrebbe dire che questo villaggio non esiste proprio perché è ovunque, in ogni angolo del pianeta.
    Il romanzo, già nel 1936, era apparso in una impressionante quantità di lingue: tedesco, francese, spagnolo, portoghese, russo, polacco, americano, ebraico, cecoslovacco, ungherese, rumeno, croato, danese, olandese, svedese, norvegese, fiammingo, sloveno, yiddish, e si preparava la traduzione in bengali.

    “Il segreto del successo di Fontamara mi si è rivelato solo quando ho appreso che certe traduzioni incontravano grandi difficoltà da parte della censura di vari paesi. In Polonia e in Jugoslavia, per citare due esempi, le autorità non volevano credere che si trattasse di una traduzione dall’italiano e pretendevano che si trattasse di un trucco per raccontare in barba alla censura la storia di un villaggio polacco o jugoslavo.
    Gli editori dovettero provare con documenti alla mano che si trattava veramente di una traduzione dall’italiano. Per molti lettori di quelle traduzioni però, mi è stato detto, il sospetto di una finzione è rimasto. Molti han riconosciuto in Fontamara la storia del proprio villaggio galiziano o croato. Questo vuol dire che Fontamara, questo villaggio abruzzese inventato e che non esiste neppure in Abruzzo, è una realtà di ogni paese. Quando uscirà in traduzione bengali la censura inglese lo lascerà circolare?
    <<Tutto quello che lei racconta in Fontamara – ho appreso dal traduttore indiano – succede proprio qui, da noi, ogni giorno.>>
    Se Fontamara ha un merito, è quello dunque di aver rivelato questa universalità del cafone. La sofferenza del contadino povero è la stessa in tutti i paesi. Sotto gli stracci del folklore c’è dappertutto la stessa creatura umana che suda sangue in un lavoro bestiale, è oppressa, ingannata, sfruttata, derisa, tenuta nell’ignoranza da una classe dominante sempre più rapace e parassitaria.
    Come vorrei che ogni lavoratore italiano emigrato in America pensasse a questo fatto, dopo aver finito la lettura di Fontamara. Io so che essi sono tenacemente attaccati alla loro regione d’origine più ancora che alla loro patria. Essi hanno fortissimo il senso della terra. Questo loro atavismo è sfruttato dalla prominentaglia di tutti i colori. Ma se ogni lavoratore emigrato vuol essere veramente fedele alla sua terra e scava questo suo sentimento fino alle estreme profondità, al di sotto del folklore, al di sotto del comune dialetto, della comune cucina, delle comuni festicciuole, troverà una comunità più grande che è quella dei lavoratori di tutta la terra.
    In altre parole, egli realizzerà la propria umanità nella misura in cui saprà andare a fondo della pena atroce che i ricordi della terra natìa han depositato nella sua anima. Quella pena, che è come una ferita profonda e sanguinante nel cuore di ognuno di noi italiano meridionale all’estero, non è qualche cosa d’individuale e particolare, ma è una grande pena universale.
    Essa ci affratella ai negri, agl’indiani, ai rumeni, ai polacchi, ai portoghesi, agli sloveni, agli ebrei, e a tutti gli altri. Quando, vincendo il nativo pudore, a noi riesce di raccontare con semplicità e verità quello che ci succede e ci è sempre successo, agli altri sembra che stiamo raccontando la loro stessa storia.
    Compagni, questo è il messaggio di Fontamara. Quest’è la sua verità segreta. Voi sarete veramente e fedelmente degli abruzzesi, dei pugliesi, dei calabresi, dei siciliani, solo se sarete coraggiosamente ribelli e internazionalisti. “



    Come non ripensare alla sorte, del tutto simile, toccata a 1984, celeberrimo romanzo del "fratello inglese" di Ignazio Silone, George Orwell (mio più antico dio letterario)?
    Lo scrittore polacco Gustaw Herling, amico sia di Orwell che di Silone, racconta con quale stupore i suoi connazionali leggessero 1984: “<<Ma questa è la mia vita>>, dicevano, <<come fa a conoscerla così bene? Come può un inglese sapere queste cose? Sarà forse un russo?>>”.
    Orwell e Silone si conobbero a Londra ed entrambi, come ebbero occasione di dire spesso, erano consapevoli del profondo legame che li univa, accomunati com’erano dalla medesima sorte. Socialisti senza partito, invisi a tutte le fazioni politiche in patria, letti e stimati in tutto il mondo.
    Nei momenti difficili George Orwell fu sempre tra quelli che non mancarono mai di dichiarare pubblicamente la propria solidarietà a Ignazio Silone.

  4. #34
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    Fontamara

    Nome:   images.jpgfontamaragut.jpg
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Grandezza:  6.0 KBCopertina dell'edizione del 1979. Disegno di Renato Guttuso "Rocco pescatore".


    La trama in breve.
    <<Ambientato in un paesino abruzzese, Fontamara appunto, racconta l'eterno conflitto tra "cafoni" e "cittadini", reso ancora più drammatico dall'avvento del fascismo. I contadini e i braccianti, rassegnati ormai e quasi assuefatti a subire senza reagire catastrofi e soprusi di ogni genere, abbrutiti dalla miseria e dalla lotta per la sopravvivenza, trovano la forza di ribellarsi quando si rendono conto dell'ultima, ennesima truffa ordita sulla loro pelle, che, per una coincidenza non casuale, corrisponde temporalmente all'entrata in scena del regime fascista. Figura centrale del romanzo è Berardo Viola, che rappresenta l'esigenza di riscattare una vita di silenzio e passività, esigenza che diverrà essenziale e imprescindibile anche per gli altri "cafoni" fontamaresi.>>


    Scritto in uno stile insuperabile, originale nella sua semplicità, rende con immediatezza le sensazioni che l’autore ci propone. “La maniera di raccontare è nostra. E’ un’arte fontamarese. E’ quella stessa appresa da ragazzo, seduto sulla soglia di casa, o vicino al camino, nelle lunghe notti di veglia , o accanto al telaio, seguendo il ritmo del pedale, ascoltando le antiche storie. Non c’è alcuna differenza tra questa arte del raccontare, tra questa arte di mettere una parola dopo l’altra, una riga dopo l’altra, una frase dopo l’altra, una figura dopo l’altra, di spiegare una cosa per volta, senza allusioni, chiamando pane il pane e vino il vino, e l’antica arte di tessere, l’antica arte di mettere un filo dopo l’altro, un colore dopo l’altro, pulitamente, ordinatamente, insistentemente, chiaramente. Prima si vede il gambo della rosa, poi il calice della rosa, poi la corolla; ma, fin da principio, ognuno capisce che si tratta di una rosa.”

    E’ una strana sensazione, si mescolano ricordi tardoveristi e neorealisti ad una venatura ironica che dà un sapore quasi favolistico al romanzo. Forse ho vissuto e viste tante ingiustizie, che è cambiata la tara dei miei giudizi. E’ talmente paradossale, con gli occhi di oggi, la vicenda raccontata che è necessario resettare la mente e tornare indietro, ai racconti dei nostri nonni e compenetrarsi in essi per riuscire ad immaginare come veri avvenimenti simili. E’ difficile immaginare, per esempio, che nel 1929, anno in cui si svolge la vicenda, nessuno a Fontamara avesse capito che in Italia c’era da anni il fascismo, tanta era l’ignoranza che sapevano semplicemente quello che il parroco aveva detto in una predica e cioè che il nuovo governo aveva fatto la pace con il papa.
    Poveri contadini che sapevano una sola cosa, che prima veniva la semina, poi l’insolfatura, poi la mietitura, poi la vendemmia.Ogni anno sempre e solo questo. Erano così ingenui che da sempre era semplicissimo raggirarli da parte delle autorità. Autorità che Silone stigmatizza già nei nomi, il vecchio sindaco don Circostanza, il nuovo podestà l’Impresario, il parroco don Abbacchio, il vecchio latifondista don Carlo Magna. Tutto serve a rendere più profondo il solco che divide la disonestà e l’arroganza dei ricchi dalla semplicità dei poveri cafoni. E nel tempo le ingiustizie sono state tante, al punto da essere sopportate come si sopporta la miseria, sono entrate nell’ordine naturale delle cose, come la nascita, l’amore, il dolore, la morte. A Fontamara, così fuori dalle vie del traffico, arroccata sul fianco della montagna , il tempo si era fermato.

    E’ il romanzo della povera gente, dell’ignoranza, del sopruso e dell’ingiustizia. Tutte cose sempre esistite sotto varie sembianze. Il suo merito sta nell’essere la cruda testimonianza, che diventa denuncia, di un sistema sociale e di una condizione di vita. I contadini poveri sono una razza a sé, tra loro si capiscono a volo in qualunque parte del mondo, perché la miseria non ha molti modi di manifestarsi se non con la fame e il desiderio individuale di sopravvivenza. Quello che succede a Fontamara è universale, ma il suo sviluppo è singolare, perché la graduale presa di coscienza degli individui, pur nel loro egoismo, alla fine coinvolge la collettività. Essere ignoranti non impedisce la perspicacia delle menti, essere poveri ed esserlo tutti diventa un grimaldello per le coscienze.

    Entrerò gradualmente nei dettagli della trama, piena di spunti di riflessione sui quali si potrà tornare singolarmente. Per iniziare mi preme ricordare la figura di Berardo Viola, che racchiude in sé i vari aspetti evolutivi e morali del romanzo. All’inizio, nel tranquillo immobilismo del tempo, le sue bravate, le lunghe discussioni all’osteria e nelle strade, costituiscono un elemento di disturbo per la collettività. Nella progressione degli avvenimenti prima alcuni giovani e poi altri, adulti e anziani, hanno cominciato ad aderire alle sue idee di giustizia. Nel momento in cui il sopruso contro la povera gente raggiunge livelli insostenibili, tutti la pensano come lui ma nessuno sa come reagire, di fronte alla realtà schiacciante del potere, ognuno pensa per sé.
    Solo Berardo prende coscienza che ci si può sacrificare per gli altri, che quella è la vittoria, il seme che darà i suoi migliori frutti.
    Il “che fare?” dei fontamaresi, alla fine, non è più l’espressione di un dubbio, ma il segnale di una maturazione.
    Il “che fare?” che segue la denuncia di una ingiustizia, porta insito in sé la risposta, è la ribellione delle coscienze.

  5. #35
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    Il sogno di Zompa
    “Si tratta di un sogno che feci nell’inverno passato. Raccontai il sogno al curato. Ma il curato mi comandò di non divulgarlo”… Ci mettemmo a sedere attorno al tavolino e Zompa proseguì:
    “Dopo la pace tra il papa e il Governo, come ricordate, il curato ci spiegò dall’altare che cominciava anche per i cafoni una nuova epoca. Il papa avrebbe ottenuto da Cristo molte grazie di cui i cafoni hanno bisogno. Ecco quella notte io vidi in sogno il papa discutere col Crocifisso.
    <<Il Crocifisso diceva:” Per festeggiare questa pace sarebbe bene distribuire la terra del Fucino ai cafoni che la coltivano e anche ai poveri cafoni di Fontamara che sono sulla montagna senza terra”. Il papa rispondeva:” Signore, il principe non vorrà mica. E il principe è un buon cristiano”. Il Crocifisso diceva:” Per festeggiare questa pace sarebbe bene dispensare almeno i cafoni dal pagare le tasse”. Il papa rispondeva:” Signore, il Governo non vorrà. E i governanti sono anch’essi buoni cristiani”. Il Crocifisso diceva:” Per festeggiare questa pace, quest’anno manderemo un raccolto abbondante soprattutto ai cafoni e ai piccoli proprietari”. Il papa rispondeva:” Signore, se il raccolto dei cafoni sarà abbondante, i prezzi ribasseranno, e sarà la rovina di molti grandi commercianti. Anch’essi meritano riguardo, essendo buoni cristiani”. Il Crocifisso molto si rammaricava di non poter far nulla per i cafoni, senza far del male ad altri buoni cristiani. Allora il papa gli propose:” Signore, andiamo sul posto. Forse sarà possibile fare qualcosa per i cafoni che non dispiaccia né al principe di Torlonia, né al Governo, né ai ricchi. Così la notte della Conciliazione, Cristo e il papa vennero attorno al Fucino, su tutti i villaggi della Marsica. Cristo andava avanti con una grande bisaccia sulle spalle; dietro gli andava il papa, che aveva il permesso di prendere dalla bisaccia qualunque cosa che potesse giovare ai cafoni. I due Viaggiatori Celesti videro in tutti i villaggi la stessa cosa, e che altro potevano vedere? I cafoni si lamentavano, bestemmiavano, litigavano, si angustiavano, non sapevano che cosa mangiare né vestire. Allora il papa si sentì afflitto nel più profondo del cuore, prese dalla bisaccia una nuvola di pidocchi di una nuova specie e li lanciò sulle case dei poveri, dicendo:” Prendete, o figli amatissimi, prendete e grattatevi. Così nei momenti di ozio, qualche cosa vi distrarrà dai pensieri del peccato”.>>

    La fede dei fontamaresi è semplice. Don Abbacchio <<non era un uomo malvagio, ma fiacco, timoroso e, nelle questioni serie, da non fidarsi. Non era certamente un pastore capace di rischiare la vita per difendere le sue pecore contro i lupi, ma era abbastanza istruito nella sua religione per spiegare come, dal momento che Dio ha creato i lupi, abbia riconosciuto a essi anche il diritto di divorare di tanto in tanto qualche pecora. Noi ricorrevamo a lui per i sacramenti; ma sapevamo, per esperienza, di non poter ricevere da lui nessun aiuto e consiglio nelle disgrazie che ci venivano dalla cattiveria dei ricchi e delle autorità. Come si dice?”Bada a quello che il prete predica e non a quello che il prete fa.” Neppure di lui dunque potevamo fidarci.>>

  6. #36
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    Grazie Baudin/Carlo, mi stai rinfrescando la memoria su Fontamara. Il fatto di non poter conservare ricordi vividi dei dettagli dei libri importanti è una cosa che mi fa imbestialire. Bisognerebbe proprio annotare tutto.
    Questo è un brano che avevo annotato mentre leggevo Il seme sotto la neve, il romanzo di Silone che più amo, e forse il mio romanzo del cuore, quello che sceglierei di salvare se mi imponessero di rinunciare a tutti i miei libri tranne uno.

    Contro il muro ingiallito della bottega la fiamma dei trucioli crea un’aria austera d’amicizia, un’aria di famiglia, tra la grande croce verniciata di nero e il vecchio mastro Eutimio nel suo ruvido vestito di panno turchino.
    <<Oh, mastro Eutimio>> gli grida don Severino da metà strada additando col suo bastoncino la croce <<chi vuoi inchiodare su codesto spaventoso patibolo?>>.
    Il falegname saluta levando il cappelluccio, sorride arrossisce.
    <<Se dipendesse da me, don Severino, diciamo pure francamente, se dipendesse da noi, se Ponzio Pilato tornasse, ci convocasse al municipio e ci domandasse, a nome del governo, chi sia da crocifiggere, be’, è certo che quella canaglia di Barabba una buona volta non se la farebbe franca.>>
    <<Non ne sono affatto certo, scusami>> osserva don Severino improvvisamente grave.
    <<No, non capirmi male, non voglio offenderti, ma, francamente, ho i miei dubbi. Credi che i tuoi compaesani saprebbero facilmente riconoscere Cristo da Barabba?>>
    Don Severino ha l’aspetto la voce i gesti di un febbricitante.
    <<Ah, don Severino, so bene che a te piace scherzare>> dice mastro Eutimio <<so che per intimorirci ti piace spesso dipingere il diavolo sul muro, ma stavolta l’hai detta grossa. Hai detto seriamente? Ma è come se tu dicessi che non sappiamo distinguere il pane dalle pietre. In fin dei conti, è vero che siamo povera gente e abbiamo poca istruzione, ma anche noi siamo creature battezzate, per così dire, anche noi abbiamo ricevuto il discernimento dalla mano del sacerdote che ci segnò la fronte col sale benedetto. Non parlo delle tre chiese che esistono a Colle, non parlo della parrocchia che esiste da secoli, non parlo dei martiri che vi sono sepolti; ma, qui, le bestie l’aria l’acqua la terra il vino la cenere l’olio la polvere delle strade, tutto è, per così dire, cristiano. Ah, vedo che ridi, e capisco che volevi scherzare.>>
    <<No, non volevo scherzare>> dice don Severino <<e scusami se la tua risposta non m’ha del tutto convinto. Credi tu, mastro Eutimio, che la scelta dei collesi sarebbe a favore di Gesù e contro Barabba, anche se Barabba si presentasse qui a cavallo, in grande uniforme, col petto ricoperto di decorazioni, alla testa d’una legione d’uomini armati, acclamato da una turba di servi in livrea, di scribi di corifei d’oratori di sacerdoti, e se Gesù invece vi fosse mostrato tra due sbirri, come un povero cristo qualsiasi, come un profugo un fuorilegge un senza-patria, un senza-carte qualsiasi? E’ una semplice domanda, una domanda che rivolgo anche a me stesso, ma ora sarei curioso di udire la tua risposta.>>
    Il fuoco di trucioli si è spento, di esso non resta che un mucchietto di cenere e le ombre della sera hanno già avvolto la bottega del falegname. Mastro Eutimio si gratta il mento, guarda per terra e resta pensieroso, mentre don Severino l’osserva sorridendo.
    <<Veramente>> confessa infine mastro Eutimio <<la tua domanda è già una risposta, la più umiliante delle risposte. Scusami, posso accompagnarti per un pezzo di strada? Non devi lasciarmi così.>>

  7. #37
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    Vino e pane

    Nome:   images.jpgSiloneI.jpg
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    "Pietro Spina, militante politico di buona famiglia, rientra clandestinamente nel proprio paese malato e braccato dalla polizia. Aiutato, con una certa diffidenza, da un antico compagno di studi divenuto medico trova riparo in una stalla. Per confondere le sue tracce si traveste da prete e cambia il suo nome in quello di Paolo Spada. Sotto queste spoglie si rifugia a Pietrasecca…."

    Vino e pane, il secondo romanzo scritto da Silone in esilio nel ’35-36, è il libro che lo confermò scrittore. Poiché Fontamara poteva anche essere un’opera unica, di rottura e di presa di coscienza, fu Vino e pane a rivelare l’ampiezza e profondità della sua visione della crisi contemporanea e il suo dono creativo.
    Il protagonista , Pietro Spina, è un tipo di rivoluzionario ormai inconfondibile nella letteratura contemporanea. La differenza essenziale tra lui e gli altri ribelli immaginati da autori della medesima epoca (Malraux, Hemingway) risiede nel fatto che quelli sono abitualmente descritti nell’esecuzione di atti temerari, mentre Spina, a causa della delazione e della malattia, è costretto all’inattività. La rivolta di Spina è un fatto interiore e non sussiste alcun dubbio della sua inconciliabilità morale con i poteri tirannici. Nell’interno del movimento rivoluzionario Vino e pane fu un coraggioso atto di auto-contestazione; ma è importante aggiungere che contestati erano gli schemi, non i valori; esso fu un atto di più vera fedeltà e non di diserzione.
    A rileggere adesso questo romanzo si è sorpresi di trovarvi alcuni giudizi sulla società e sulla Chiesa divenuti nel frattempo luoghi comuni . Don Paolo Spada e don Benedetto si esprimono sulla guerra, sul Concordato, sui poveri, sulle gerarchie negli stessi termini dei gruppi del dissenso post-conciliare. La critica di Silone, anche la più spregiudicata, non investe mai la fede ma solo il costume e il comportamento politico della Chiesa.
    Mi pare molto attuale quello che dice Barzini “Perché mio figlio dovrebbe leggere oggi Vino e pane? E perché mio nipote lo leggerà senza dubbio domani?” e risponde “Il suo messaggio è ancora intatto. L’apparente mancanza d’arte della storia, la qualità semplice della scrittura, fanno di esso non un libro di ieri o di oggi, ma un libro di tutte le generazioni. Esso è un poema dell’eterna lotta dell’Uomo contro l’Organizzazione, dell’Uomo che cerca di liberare se stesso”.

    Dalla prefazione della IX ristampa Mondadori 1979

  8. #38
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    Vino e pane

    Nella prima metà del romanzo Pietro Spina deve nascondersi per sfuggire all’arresto, sotto le mentite spoglie di un prete cerca anche di guarire dai suoi problemi di salute. Trascorre lunghe giornate a riposare e leggere, ma l’inattività lo mina nel morale.
    “Se potessi addormentarmi qui e domani mattina svegliarmi, mettere il basto all’asino e andare alla vigna. Se potessi addormentarmi e svegliarmi, non soltanto con i polmoni sani, ma anche con la testa di un uomo normale, col cervello liberato da tutte le astrazioni. Se potessi rientrare nella vita reale e normale. Zappare, arare, seminare, raccogliere, guadagnarmi da vivere e la domenica parlare con gli altri uomini. Adempiere la Legge che dice “tu ti guadagnerai la vita col sudore della fronte”. A rifletterci bene, forse l’origine delle mie angosce è in questa infrazione all’antica Legge, nella mia abitudine a vivere tra i caffè, le biblioteche e gli alberghi, nell’aver rotto la catena che per secoli aveva legato i miei antenati alla terra. Forse mi sento un uomo fuori legge, non tanto perché contravvengo ai decreti arbitrari del partito al potere quanto perché sono fuori di quella più vecchia Legge che aveva stabilito “tu ti guadagnerai da vivere col sudore della tua fronte”. Non sono più un contadino , ma neppure sono diventato un politico; mi è impossibile tornare alla terra, ma ancora più difficile tornare nel mondo immaginario in cui ho vissuto finora.”

  9. #39
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    Vino e pane

    Pietro Spina, il protagonista di “Vino e pane” è un rivoluzionario che vive in clandestinità, per oltre metà del romanzo è don Paolo Spada, si nasconde sotto la tonaca ma non ne abusa, la rispetta e non fa nulla che la offenda agli occhi degli altri. La sua attenzione è rivolta ai giovani della sua terra, ai loro ideali, al loro essere nella fase della poesia. “Arriva sempre un’età in cui i giovani trovano insipido il pane e il vino della propria casa. Essi cercano altrove il loro nutrimento. Il pane e il vino delle osterie che si trovano nei crocicchi delle grandi strade, possono solo calmare la loro fame e la loro sete. Ma l’uomo non può vivere tutta la sua vita nelle osterie.”

    E’ il motivo per cui torna a Roma, per organizzare i gruppi clandestini in vista della nuova rivoluzione. Ma si scontra con la realtà di un partito ottuso e chiuso al dialogo, che non comprende le ragioni della libertà di pensiero. In un dialogo con alcuni compagni disincantati capisce che la lotta contro il totalitarismo fascista viene attuata in nome di un altro totalitarismo, il comunista, che non porterà al compimento del suo sogno.
    I suoi superiori vogliono che lui si impegni nel sensibilizzare i contadini del Fucino e lui risponde che non è semplice, che in essi non è presente il concetto di meridionalismo, che sono poco sensibili alle idee di Gramsci e più propensi a recepire la semplicità del pensiero di Gioacchino da Fiore.
    La grandezza della figura di Pietro Spina è in queste considerazioni, la purezza e la libertà del pensiero Gioacchimita non in contraddizione con le idee del suo socialismo ideale e utopistico.
    Torneremo in seguito, circostanze permettendo, sull’importanza di Gioacchino da Fiore nelle opere di Silone degli anni che seguiranno alla guerra. Qui vorrei sottolineare alcune considerazioni ancora in fase embrionale, quando Silone fa dire a Spina che lui immagina un Dio diverso dal pensiero paludato dei vertici ecclesiastici, non un Dio seduto in poltrona che dal cielo osserva gli uomini, ma un Dio giovane e inquieto, che vaga continuamente per il mondo. Un Dio dispensatore di spiritualità, perché questa, come dice Gioacchino da Fiore, è l’età dello Spirito.

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