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Discussione: Il nome nella poesia

          
  1. #16
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    A Elena (1831)

    Elena, la tua bellezza è per me
    come quei navigli nicei d'un tempo
    che, mollemente, sull'odorato mare
    riportavano il pellegrino stanco d'errare
    alla sua sponda natia.
    Da tempo avezzo a disperati mari,
    la tua chioma di giacinto, il tuo classico volto,
    la tua grazia di Naiade riportano me anche in patria,
    a quella gloria che fu la Grecia,
    a quella maestà che fu Roma.
    Là, nel rilucente vano della finestra,
    come statua eretta io ti vedo,
    con in mano la tua lampada d'agata!
    Ah, Psyche, qui venuta dalle regioni
    che son Terra Santa.


    Edgar Allan Poe
    Non avere mai paura di essere un papavero in un campo di giunchiglie.


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  3. #17
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    Eulalia (1843)

    Dimorai solitario
    in un mondo di pianto
    e la mia anima era stagnante acqua,
    finchè Eulalia gentile e bella divenne la mia sposa in rossore
    finchè Eulalia dai capelli d'oro divenne la mia sposa in sorriso.
    Ah, meno assai lucenti
    le stelle notturne
    che gli occhi della raggiante ragazza!
    e mai un fiocco
    che la bruma forma
    con tinte porpuree e perlate di luna
    possono col più negletto ricciolo della modesta Eulalia
    possono col più umile e incondito ricciolo di Eulalia occhi lucenti aver paragone.
    Or Dubbio or Pena
    mai più ritornano,
    perchè la sua anima mi rende sospiro per sospiro,
    e lungo il giorno
    splende luminosa e forte
    Astarte in cielo,
    mentre la cara Eulalia a lei volge e rivolge il suo occhio di matrona
    mentre lei alla giovine Eulalia volge il suo occhio viola.

    Edgar Allan Poe
    Non avere mai paura di essere un papavero in un campo di giunchiglie.


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  5. #18
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    A Elena (1848)

    Ti vidi una volta, una sola volta –anni fa:
    non voglio dir quanti – non molti,tuttavia.
    Era notte, di Luglio; e dalla grande luna piena
    che, come la tua anima, ricercava, elevandosi,
    un suo erto sentiero per l’arco del cielo,
    piovve un serico argenteo velo di luce,
    con sé recando requie, grave afa e sopore,
    sui sollevati visi d’almeno mille rose
    che s’affollavano in un incantato giardino,
    che nessun vento – se non in punta di piedi – osava agitare.
    E cadde su quei visi di rose levati al cielo,
    che in cambio restituirono, per l’amorosa luce,
    le loro anime stesse odorose, in estatica morte.
    Cadde su quei visi di rose levati al cielo,
    che sorridendo morirono, in quel chiuso giardino,
    da te incantati, da quella poesia che tu eri.
    In bianca veste, sopra una sponda di viole,
    ti vidi reclina, mentre che quella luce lunare
    cadeva sui visi sollevati delle rose,
    e sul tuo, sul tuo viso –ahimé, dolente!
    Non fu il Destino che, in quella notte di Luglio,
    non fu forse il Destino ( e Dolore è l’altro suo nome)
    che m’arrestò, davanti a quel giardino,
    a respirar l’incenso di quelle rose addormentate?
    Non un passo nel silenzio: dormiva l’odiato mondo,
    tranne io e te.M’arrestai, guardai
    e ogni cosa in un attimo disparve
    (Oh, ricorda ch’era un magico giardino!)
    Si spense il perlaceo lume della luna:
    non più vidi sponde muscose, tortuosi sentieri,
    i lieti fiori e gli alberi gementi;
    e moriva quel profumo stesso delle rose
    tra le braccia dell’aria innamorata.
    Tutto svaniva fuor che tu sola – una parte anzi di te:
    fuor che quella divina luce nei tuoi occhi-
    fuor che la tua anima nei tuoi occhi alzati al cielo.
    Quelli io vedevo e non altro – l’intero mondo per me.
    Quelli io vedevo e non altro – e così per molte ore-
    quelli solo io vedevo – finché la luna non tramontò.
    Quali selvagge storie del cuore erano inscritte
    in quelle celestiali sfere di cristallo!
    Quale fosco dolore! E sublime speranza!
    Quale tacito e pacato mare d’orgoglio!
    Quale audace ambizione! E che profonda-
    insondabile capacità d’amore!
    Ma disparve infine Diana alla mia vista,
    velata in un giaciglio di scure nuvole a ponente;
    e tu – uno spettro – tra i sepolcrali alberi
    ti dileguasti.Solo i tuoi occhi rimasero.
    Essi non vollero andar via – mai più disparvero.
    Quella notte illuminando il mio solingo cammino,
    non più mi lasciarono (come invece, ahimé,
    le speranze!).Ovunque mi seguono, mi guidano
    negli anni.Sono i miei ministri – ma io il loro schiavo.
    Loro compito è d’illuminarmi, d’infiammarmi,
    e mio dovere è d’esser salvato da quella luce,
    in quel loro elettrico fuoco purificato,
    in quel loro elisio fuoco santificato.
    Mi colmano l’anima di beltà, di speranza –
    su nel cielo – le stelle a cui mi prostro
    nelle tristi, mute veglie delle mie notti;
    e nel meridiano splendore el giorno
    ancora io le vedo – due fulgenti e dolci
    Veneri, che il sole non può oscurare.

    Edgar Allan Poe
    Non avere mai paura di essere un papavero in un campo di giunchiglie.


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  7. #19
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    EURIDICE
    I
    Niente succede a caso, niente.
    Che io ti abbia trovata, Euridice,
    che tu sia apparsa a me – felice
    di essere scoperta tra la gente –
    un giorno non qualunque
    di un non qualunque anno,
    pronta a svelarmi inganno e disinganno;
    per cui nel riconoscerti «Dunque
    sei tu», nient’altro, e basta:
    una stretta di mano, la mano
    nella mia tiepida appena, casta,
    e la voce che trema e non osa
    dire quello che sa, ma piano
    suggerisce altre cose, altra cosa.
    II
    E’ stata quindi una necessità
    incontrarti, te tra millecento
    che potevo, te pioggia sole vento
    e subito me stesso, mia metà.
    Più mia del mio sorriso e della pena,
    più mia della parola, di ogni gesto.
    Nome che chiamo, nome manifesto,
    sangue che pulsa lento nella vena.
    Perché sei tu e non altra, tu, Euridice,
    compagna e sposa mia, sorella mia,
    incisa nella pelle, cicatrice,
    che mi riempi pensiero, bocca, sesso,
    e non capisco ancora come sia
    che perdo me nel ritrovarti, adesso.
    III
    Ascoltatemi, animali e voi piante,
    tu cielo – monti torrenti scarpate –
    voi cose sospese e interrate,
    cose che mi girate intorno, tante.
    Di certo non avrei mai creduto
    di afferrare l’esistente con un dito:
    se mi sento diventare infinito
    e poi limite e fine, sordo e muto.
    Euridice, continuo a nominare,
    Euridice che canto e che invento,
    Euridice, mio eterno pensare.
    Siamo in due, siamo due e uno solo:
    esserti fuori o dentro è tormento
    in cui affondo. E poi volo.
    IV
    Può finire un amore, può cessare
    di scorrere il sangue, così improvvisamente,
    bloccarsi un corpo, tacere una mente,
    e dicono non ci sia nulla da fare.
    Io ti scuoto e ti scuoto, Euridice,
    non è possibile che non mi rispondi
    lì dove sei finita e ti nascondi,
    tornata sottoterra, mia radice.
    Ê uno scherzo, non può essere vero
    che rimanga di te solo il dolore:
    tutto intorno più nero del nero.
    Per questo alzati, cara, non fingere
    un silenzio adirato, accusatore.
    Non restartene lì come una sfinge.
    V
    Andrò da maghi a vendermi il destino,
    carte false farò con fattucchiere,
    annegato nell’acqua di un bicchiere
    perché non ci sei più, non ti ho vicino.
    Maledetti gli dei; quell’uno solo
    che ha deciso dall’alto del suo alto
    – indifferente a tutto, ad ogni soprassalto
    del cuore, trionfante nel suo ruolo –
    di lasciarti morire, Euridice,
    che non gli hai fatto niente,
    mia figlia e sposa, amica mia, nutrice:
    lo maledico con tutto me stesso,
    dio colpevole e te innocente,
    per quello che ha voluto, che ha permesso.
    VI
    Se provassi a pregare, se riuscissi
    a convincerlo? Lui può fare
    che sia quel che non è, può fermare
    la terra, il sole, inventare un’eclissi.
    Dio degli dei, dio dei viventi, dio,
    non c’è un motivo vero, una ragione
    per cui la vita mi diventi prigione,
    e quello che era mio non sia più mio.
    Ti scongiuro, signore dell’abisso,
    ti imploro, lascia che ritorni
    a fare uno di me che sono scisso.
    Del tutto vero quello che si dice:
    sono pronto a dannare i miei giorni
    per riportarla a me, Euridice.
    VII
    Verrò a prenderti, cara, verrò
    a liberarti, Euridice sprofondata
    in un sonno ingannatore; mia malata,
    rinuncerò a curarti, se vedrò
    che ti avvolgi in un buio più profondo.
    Cosa ti tiene, che cosa ti trattiene
    laggiù, lontana dal mio bene:
    hai paura di perderlo nel mondo?
    Ma io scendo, comunque, a salvarti:
    perché la vita vera è qui, è ora,
    nel mio presente, nel mio sempre pensarti.
    Non c’è assoluto che sia meglio
    di noi, del mio volerti ancora.
    Ed è un incubo il sonno in cui sto sveglio.
    VIII
    Sono pronto a fare una promessa,
    barattando il mio sguardo col respiro
    di te viva, il mio silenzio-capogiro
    col tuo nome: Euridice principessa.
    Giuro che non ti sfioro con gli occhi,
    con le mani, che non mi avvicino
    col mio corpo teso di bambino
    incantato dal paese dei balocchi:
    purché tu, semplicemente, sia
    rimarrò muto, cieco e sospeso
    vivendo viva e vera la magia
    del tuo ritorno; impazienza
    di averti, avendoti preteso,
    mia ombra inconsistente, mia esistenza.
    IX
    Ecco, ti sento, ci sei e sei vicina.
    Ma non ti guardo, taccio, sono bravo.
    Ai tuoi occhi sarò padrone e schiavo,
    Euridice, mia madre e bambina.
    Come vorrei mi prendessi la mano,
    toccarti un braccio, sfiorarti la bocca:
    so che non devo, so cosa mi tocca
    se non resisto a starti lontano.
    Sei silenziosa e ferma al mio fianco,
    oppure ti nascondi, resti indietro;
    segui ubbidiente il mio passo stanco
    e nel tuo passo leggero ti ascolto.
    Tu, trasparente pensiero di vetro:
    voglio appannarti. Ecco, mi volto.

    Alida Airaghi
    Non avere mai paura di essere un papavero in un campo di giunchiglie.


  8. #20
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    GEMMA DONATI
    I
    Mi dicono di lui che è un buon partito,
    ma così serio sempre che un po’ temo
    la mia vita futura, ed il marito
    che sarà. A notte veglio a lungo, e tremo.
    Però di giorno, nel sentir cantare
    per le strade sull’aria di Casella
    quella ballata sua che invita a amare,
    allora mi consola la mia stella.
    Un altro ci sarebbe che mi piace,
    ma il mio pensiero non è mai costante.
    So ciò che devo per avere pace,
    e non farò quello che fanno tante.
    Per questo il cuore si rassegna e tace;
    gliel’ordino. Il mio promesso è Dante.

    II
    L’ho visto oggi, in allegra brigata,
    per la via che il sestriere divide.
    Non mi ha guardato, finché sono entrata
    in chiesa: poi li ho sentiti ridere.
    Si potrebbe pensare si vergogni
    di portare così stampato in faccia
    che non vuole privarsi dei suoi sogni.
    Forse crede che questo mi dispiaccia.
    Pare abbia scelto per le rime un nome
    e se ne serva come di uno stemma:
    nome di donna che riluce come
    la stella diana; ed è uno stratagemma
    facile da rimar per chi compone.
    Lui scrive Beatrice e pensa Gemma.

    III
    Ho aspettato il mattino del mio giorno
    pregando Dio e facendomi bella.
    Mentre la gente si stringeva intorno
    lui cercava coraggio in sua sorella.
    Stava lì come chi si sente privo
    di qualcosa o qualcuno, abbandonato.
    Io piangendo troppa gioia mentivo.
    Lui taceva, di me forse irritato.
    Io sono una Donati, io; antica
    e nobile famiglia, che a confronto
    gli Alighieri scompaiono. Non dicano
    che mi ha fatto un onore, è un affronto
    che l’una all’altra gente fa nemica.
    Io non voglio pagare nessun conto.

    IV
    Gli ho fatto un maschio. L’ha chiamato Pietro,
    scegliendo un nome che di Cristo vive,
    e senza uscire dal suo umore tetro
    è tornato nella sua stanza a scrivere.
    Fa così perché è un genio. L’ho capito
    che le gioie di tutti non lo toccano.
    Non posso domandare a un tal marito
    di pendere da ciò che ho sulla bocca.
    Mi sono messa a frugare le carte
    con la speranza di trarne la prova
    che a interessarlo non è solo l’arte,
    che l’esistenza in famiglia gli giova,
    e ne scrive. Chissà se almeno in parte
    a me dedicherà la Vita nova.

    V
    Alcuni su Firenze ci si impinguano:
    lui ama la città più di se stesso.
    E’ questo che lo perde, e la sua lingua.
    Io mi aspettavo ciò che fanno adesso.
    I migliori non hanno mosso un dito
    quando la casa ci è stata distrutta;
    lui per fortuna era via, partito
    per sempre. Ma io, Gemma, ero lì, tutta.
    Come fanno da sempre i peregrini
    che nelle corti sopportano il giogo,
    scriverà, amerà, farà gli inchini.
    Con se stesso, sta bene in ogni luogo.
    Sarò sola per anni, coi bambini;
    sono sposata a un condannato al rogo.

    VI
    So della donna di cui Dante dice
    beato e beatifico il sorriso,
    colei cui diede nome Beatrice
    fingendo di seguirla in Paradiso.
    Alcuni pensano esista davvero,
    altri sia morta ormai da molti anni.
    Guardate quanti stravolgono il vero
    per vederlo vestito d’altri panni!
    Si narra poi che gli vive lontana,
    che in gioventù l’ha avvicinato a Dio:
    ho sentito ripeter che è toscana
    – di Firenze –, proprio del borgo mio.
    Credano gli altri a una memoria vana.
    Quella che l’ha ispirato, sono io.

    Alida Airaghi
    Non avere mai paura di essere un papavero in un campo di giunchiglie.


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