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Discussione: Vincenzo Consolo

          
  1. #1
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    Vincenzo Consolo

    VITA
    Vincenzo Consolo è nato a Sant’Agata Militello (Messina) il 18 febbraio 1933. Dal 1968 vive e lavora a Milano, sua patria di adozione. Romanziere e saggista ha pubblicato numerosi romanzi, ambientati soprattutto nella sua regione di origine, la Sicilia. Ha vinto il Premio Pirandello per il romanzo Lunaria nel 1985, il Premio Grinzane Cavour per Retablo (1988), il Premio Strega (Nottetempo, Casa per casa, 1992) e il Premio Internazionale Unione Latina (L’olivo e l’olivastro, 1994).
    I suoi libri sono stati tradotti in francese, tedesco, inglese, spagnolo, portoghese, olandese, rumeno.


    OPERE
    Romanzi:
    La ferita dell’aprile; (Mondadori 1963 – Einaudi 1977)
    Il sorriso dell’ignoto marinaio; (Einaudi 1976 – Mondadori 1997)
    Lunaria; (Einaudi 1985 – Mondadori 1996)
    Retablo; (Sellerio 1987 – Mondadori 1992)
    Le pietre di Pantalica; (Mondadori 1988)
    Nottetempo, casa per casa; (Mondadori 1992)
    Nerò metalicò; (Il Melangolo 1994)
    Fuga dall’Etna; (Donzelli 1993)
    L’olivo e l’olivastro; (Mondadori 1994)
    Lo spasimo di Palermo;(Mondadori 1998)
    Saggi:
    ‘Nfernu veru (La letteratura dello Zolfo); (Edizioni del lavoro, 1985)
    La pesca del tonno in Sicilia; (Sellerio 1986)
    Il barocco in Sicilia; (Bompiani 1991)
    Vedute dello stretto di Messina; (Sellerio 1993).

  2. #2
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    “Rosalia, Rosa e Lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha ròso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino, scorre tra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore.
    Lia che m’ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell’inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l’ossa, limaccia che m’invischiò nelle sue spire, lingua che m’attassò come angue che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell’alma mia, liquame nero, pece dov’affogai, ahi!, per mia dannazione. Corona di delizia e di tormento, serpe che addenta la sua coda, serto senza inizio e senza fine, rosario d’estasi, replica viziosa, bujo precipizio, pozzo di sonnolenza, cieco vagolare, vacua notte senza lume, Rosalia, sangue mio, mia nimica, dove sei?”


    E’ l’incipit dell’Oratorio ed in effetti appare una preghiera recitata da Isidoro, frate spogliato.



    “Sull’Aurora , all’aurora”
    Di luce in luce, donna Teresita, di oro in oro. Vi rappresento in prima la visione prima, virginia e pifània di Palermo. In piedi sul cassero di prora del packet-boat Aurora, il sole sul filo in oriente d’orizzonte, mi vedea venire incontro la cittate, quasi sognata e tutta nel mistero, come nascente, tarda e silenziosa, dall’imo della notte, in oscllìo lieve di cime, arbori, guglie e campanili, in sfavillio di smalti, cornici e fastigi valenciani, matronali cupole, terrazze con giare e vasi, in latteggiar purissimo de’ marmi nelle porte, colonne e monumenti, in rosseggiar d’antemurali, lanterne, forti e di castell’a mare, in barbaglìo di vetri de’ palagi, e d’oro e specchi di carrozze che lontane correvano le strade. Oltre, sopra un fitto manto del verde più profondo, una catena d’alti colli e scabri, spiccati in basso da un lungo e sottile nuvolario e come vaganti in alto nel terso mattino, catena che s’incurva e che s’impenna, accidentata e vasta, verso l’occaso, in una bellissima montagna che di balza in balza precipita nel mare.
    E più che avanza nel mezzo le braccia del gran golfo la nave mia e in dentro il calmo lago del suo porto, ecco che mi giungono i romori, bronzei e murmuranti di campane, spacconi di bombarde pei legni che vi salpano, e a mano a che più prossima si fa la banchina, tra la boscagliad’alberi e di vele, ove si scorgeil brulicare d’òmini, animali, carrette e mercanzie, s’odon urla, frastuoni, tonfi, stridori e strepitii.
    E a mano a mano io mi trovai a passare dal sogno e dall’incanto al risveglio più lucido, alla visione più netta delle cose, ne la luce di giugno più vere e crude, ch’invade l’animo mio d’incertezza e d’ansia pel futuro, finito questo tempo sospeso e irreale del viaggio.”


    E' l’arrivo a Palermo in nave di Fabrizio Clerici.


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