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Discussione: Lettere...dialoghi

          
  1. #16
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    “Tutti i colori che l’impressionismo ha messo di moda sono cangianti: ragione di più per impiegarli arditamente crudi; il tempo penserà anche troppo ad addolcirli. Perciò tutta l’ordinazione che ho fatto, cioè i tre cromi (l’arancione, il giallo, il limone), il blu di Prussia, lo smeraldo, le lacche rosso robbia, il verde Veronese, la grafite arancione, tutto questo non si trova certo sulla tavolozza olandese di Maris, Mauve e Israèls. Si trovava soltanto sulla tavolozza di Delacroix, che aveva la mania dei due colori maggiormente condannati, e per giusti motivi: il limone e il blu di Prussia. Eppure, mi pare che con i blu e i gialli limone abbia fatto cose splendide.”

    Arles, aprile 1888, lettera di Vincent Van Gogh al fratello Theo.
    Non avere mai paura di essere un papavero in un campo di giunchiglie.


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  3. #17
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    “Non so se capirai che si può fare una poesia solo disponendo sapientemente dei colori, così come si possono dire cose consolanti in musica. Allo stesso modo, alcune linee bizzarre, scelte e moltiplicate, serpeggianti in tutto il quadro, non devono dare un giardino nella sua rassomiglianza volgare, ma disegnarcelo come veduto in sogno, nel tempo stesso reale, eppure più strano che nella realtà.”

    Arles, novembre 1888, lettera di Vincent Van Gogh alla sorella Wilhelmina.
    Non avere mai paura di essere un papavero in un campo di giunchiglie.


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  5. #18
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    “Devo prevenirti che tutti troveranno che io lavoro troppo in fretta. Non ci credere affatto. Non è forse l’emozione, la sincerità del sentimento della natura che ci guida? E se queste emozioni sono talvolta così forti che si lavora senza accorgersi che si lavora, quando a volte le pennellate vengono con un seguito e dei rapporti fra loro come le parole in un discorso o in una lettera, bisogna allora ricordarsi che non è sempre stato così e che nell’avvenire ci saranno pure, purtroppo, giorni grevi, senza ispirazione. Bisogna perciò battere il ferro mentre è caldo e mettere da parte le sbarre fucinate.”

    Arles, luglio 1888, lettera di Vincent Van Gogh al fratello Theo
    Non avere mai paura di essere un papavero in un campo di giunchiglie.


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  7. #19
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    “ Il mio lavoro nel corso di dieci anni è consistito nell’eliminare tutto quanto non provenisse dalle pulsioni liriche interne che mi spingevano a dipingere. I miei temi sono stati sempre le mie sensazioni, i miei stati d’animo e le profonde dinamiche che la vita andava producendo in me... rappresentazioni di me stessa che erano quanto di più sincero e vero potessi fare per esprimere quel che sentivo di me e davanti a me .”

    Frida Kahlo, 1939, lettera a Chavez
    Non avere mai paura di essere un papavero in un campo di giunchiglie.


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  9. #20
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    E’ lecito inventare dei verbi nuovi? Voglio regalartene uno: io ti cielo, così che le mie ali possano distendersi smisuratamente, per amarti senza confini.

    Lettera di Frida Kahlo a Carlos Pellicer, poeta messicano modernista.
    Non avere mai paura di essere un papavero in un campo di giunchiglie.


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  11. #21
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    La mia notte è come un grande cuore che pulsa..
    Sono le tre e trenta del mattino.
    La mia notte è senza luna.
    La mia notte ha grandi occhi che guardano fissi una luce grigia che filtra dalle finestre.
    La mia notte piange e il cuscino diventa umido e freddo.
    La mia notte è lunga e sembra tesa verso una fine incerta.
    La mia notte mi precipita nella tua assenza.
    Ti cerco, cerco il tuo corpo immenso vicino al mio, il tuo respiro, il tuo odore.
    La mia notte mi risponde: vuoto; la mia notte mi dà freddo e solitudine.
    Cerco un punto di contatto: la tua pelle.
    Dove sei?
    Dove sei?
    Mi giro da tutte le parti, il cuscino umido, la mia guancia vi si appiccica, i capelli bagnati contro le tempie.
    Non è possibile che tu non sia qui.
    La mie mente vaga, i miei pensieri vanno, vengono e si affollano, il mio corpo non può comprendere. Il mio corpo ti vorrebbe.
    Il mio corpo, quest’area mutilata, vorrebbe per un attimo dimenticarsi nel tuo calore, il mio corpo reclama qualche ora di serenità.
    La mia notte è un cuore ridotto a uno straccio.
    La mia notte sa che mi piacerebbe guardarti, seguire con le mani ogni curva del tuo corpo, riconoscere il tuo viso e accarezzarlo.
    La mia notte mi soffoca per la tua mancanza.
    La mia notte palpita d’amore, quello che cerco di arginare ma che palpita nella penombra, in ogni mia fibra.
    La mia notte vorrebbe chiamarti ma non ha voce.
    Eppure vorrebbe chiamarti e trovarti e stringersi a te per un attimo e dimenticare questo tempo che massacra.
    Il mio corpo non può comprendere.
    Ha bisogno di te quanto me, può darsi che in fondo, io e il mio corpo, formiamo un tutt’uno.
    Il mio corpo ha bisogno di te, spesso mi hai quasi guarita.
    La mia notte si scava fino a non sentire più la carne e il sentimento diventa più forte, più acuto, privo della sostanza materiale.
    La mia notte mi brucia d’amore.
    Sono le quattro e trenta del mattino.
    La mia notte mi strema.
    Sa bene che mi manchi e tutta la sua oscurità non basta a nascondere quest’evidenza che brilla come una lama nel buio, la mia notte vorrebbe avere ali per volare fino a te, avvolgerti nel sonno e ricondurti a me.
    Nel sonno mi sentiresti vicina e senza risvegliarti le tue braccia mi stringerebbero.
    La mia notte non porta consiglio.
    La mia notte pensa a te, come un sogno a occhi aperti.
    La mia notte si intristisce e si perde.
    La mia notte accentua la mia solitudine, tutte le solitudini.
    Il suo silenzio ascolta solo le mie voci interiori.
    La mia notte è lunga, lunga, lunga.
    La mia notte avrebbe paura che il giorno non appaia più ma allo stesso tempo la mia notte teme la sua apparizione, perché il giorno è un giorno artificiale in cui ogni ora vale il doppio e senza di te non è più veramente vissuta.
    La mia notte si chiede se il mio giorno somiglia alla mia notte.
    Cosa che spiegherebbe la mia notte, perché tempo anche il giorno.
    La mia notte ha voglia di vestirmi e di spingermi fuori per andare a cercare il mio uomo.
    Ma la mia notte sa che ciò che chiamano follia, da ogni ordine, semina disordine, è proibito.
    La mia notte si chiede cosa non sia proibito.
    Non è proibito fare corpo con lei, questo, lo sa, ma si irrita nel vedere una carne fare corpo con lei sul filo della disperazione.
    Una carne non è fatta per sposare il nulla.
    La mia notte ti ama fin nel suo intimo, e risuona anche del mio.
    La mia notte si nutre di echi immaginari.
    Essa, può farlo. Io, fallisco.
    La mia notte mi osserva. Il suo sguardo è liscio e si insinua in ogni cosa.
    La mia notte vorrebbe che tu fossi qui per insinuarsi anche dentro di te con tenerezza.
    La mia notte ti aspetta.
    Il mio corpo ti attende.
    La mia notte vorrebbe che tu riposassi nell’incavo della mia spalla e che io riposassi nell’incavo della tua.
    La mia notte vorrebbe essere spettatrice del mio e del tuo godimento, vederti e vedermi fremere di piacere.
    La mia notte vorrebbe vedere i nostri sguardi e avere i nostri sguardi pieni di desiderio.
    La mia notte vorrebbe tenere fra le mani ogni spasmo.
    La mia notte diventerebbe dolce.
    La mia notte si lamenta in silenzio della sua solitudine al ricordo di te.
    La mia notte è lunga, lunga, lunga.
    Perde la testa ma non può allontanare la tua immagine da me, non può dissipare il mio desiderio.
    Sta morendo perché non sei qui e mi uccide.
    La mia notte ti cerca continuamente.
    Il mio corpo non riesce a concepire che qualche strada o una qualsiasi geografia ci separi.
    Il mio corpo diventa pazzo di dolore di non poter riconoscere nel cuore della notte la tua figura o la tua ombra.
    Il mio corpo vorrebbe abbracciarti nel sonno.
    Il mio corpo vorrebbe dormire in piena notte e in quelle tenebre essere risvegliato al tuo abbraccio.
    La mia notte urla e si strappa i veli, la mia notte si scontra con il proprio silenzio, ma il tuo corpo resta introvabile.
    Mi manchi tanto, tanto.
    Le tue parole.
    Il tuo colore.
    Fra poco si leverà il sole…

    Lettera di Frida Kahlo a Diego Rivera, Città del Messico, 12 settembre 1939, mai spedita.
    Non avere mai paura di essere un papavero in un campo di giunchiglie.


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  13. #22
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    "Sento di averti amato sempre, prima che tu nascessi, prima che tu fossi concepito. Vorrei darti i colori più belli e, per vederti dal basso, vorrei essere l’ombra delle tue scarpe che si allunga sul terreno sul quale cammini".

    Queste parole Frida non le scrisse a Diego. Anima troppo immensa per essere contenuta in qualsivoglia convenzione sociale, figuriamoci in un concetto di amore socialmente riconosciuto, Frida amò dal 1946 al 1949, di un amore intenso, José Bartoli, affascinante illustratore catalano che aveva combattuto nella guerra civile spagnola e che, fuggito da un campo di concentramento nazista, trovò rifugio a New York, dove i due si incontrarono quando lei fu ricoverata per uno dei 32 interventi alla spina dorsale, eredità di quel primo incidente a 17 anni.
    Non poteva avere figli, Frida, ma a lui scrisse parole che hanno il sapore di un unicità che esclude Diego che, qui, diventa l’altro:

    "Non so come faremo a risolvere le cose. Sarò la tua casa, la tua madre, il tuo amore, il calore del tuo sangue, la consolazione dei tuoi timori, il tuo rifugio dal dolore e dalla tristezza, la madre dei tuoi figli che nasceranno e non nasceranno".

    In tre anni lei gli scrisse 25 lettere:

    "Ricevile come se una ragazzina per strada ti desse un fiore, senza un perché".

    Eccone alcuni estratti:

    "Ieri sera mi sono sentita come se tante ali mi accarezzassero tutta, come se le punte delle tue dita avessero bocche che baciavano la mia pelle. Gli atomi del mio corpo sono tuoi e vibrano insieme così che ci amiamo l’un l’altra. Voglio vivere ed essere forte per amarti con tutta la tenerezza che ti meriti, per darti tutto ciò che c’è di buono in me, così che tu non ti sentirai solo. […] Sento di averti amato da sempre, da prima che tu nascessi, da prima che tu fossi concepito. A volte sento di aver partorito me stessa".

    Firmava le lettere a José Mara, diminutivo di maravillosa (meravigliosa), come lui la chiamava in alcune sue epistole.

    "Dal piccolo letto su cui sono sdraiata guardo la linea elegante del tuo collo, la raffinatezza del tuo viso, le tue spalle e la tua schiena ampia e forte. Provo ad avvicinarmi a te il più possibile così che possa percepirti, per godere della tua incomparabile carezza, il piacere che è toccarti… se non ti tocco, le mie mani, la mia bocca e tutto il mio corpo perdono la sensazione. So che dovrò immaginarti quando sarai andato via. […] Non negarmi gli altri desideri che danno completezza a ciò che provo per te e che può soltanto essere chiamato amore. […] E l’unica cosa che esiste per me in questo momento è che ti amo".

    "In un mondo migliore senza ipocrisia, stupidità, miseria e tradimento… non abbandonarmi. Tienimi dentro di te, ti imploro. Voglio essere la tua casa, tua madre, la tua amante e il tuo figlio… Ti amerò dal panorama che vedi, dalle montagne, dagli oceani e dalle nuvole, dal più sottile dei sorrisi e a volte dalla più profonda disperazione, dal tuo sonno creativo, dal tuo piacere profondo o passeggero, dalla tua stessa ombra o dal tuo stesso sangue. Guarderò attraverso la finestra dei tuoi occhi per vedere te".

    Quando Bartoli partì per il Messico la disperazione di Frida fu grande:

    "Mi sono sentita come se avessi perso tutto, e volevo morire. […] Per te ho ricominciato a vivere, a dipingere, ad essere felice, a mangiare meglio per essere forte così che tu potessi trovarmi bella, un po’ nel modo in cui ero prima, ma adesso sono di nuovo così triste che non voglio fare niente, non voglio vedere nessuno e ancora una volta sono in uno stato di solitudine che non c’è modo di descrivere".

    "Mio Bartoli-Jose-Giuseppe-il mio rosso, non so come si scrivono lettere d’amore. Ma voglio dirti che tutta me è aperta per te. Da quando mi sono innamorata di te, tutto si è trasformato ed è pieno di bellezza. Voglio darti i colori più belli, voglio baciarti… voglio che i nostri mondi da sogno siano uno solo. Vorrei vedere dai tuoi occhi, sentire dalle tue orecchie, sentire con la tua pelle, baciare con la tua bocca. Per vederti dal di sotto, vorrei essere la tua ombra nata dalla suola del tuo piede, che si estende lungo il terreno su cui cammini… Voglio essere l’acqua che ti lava, la luce che ti dà forma, vorrei che la mia sostanza fosse la tua sostanza, che la tua voce uscisse dalla mia gola così che tu mi accarezzassi da dentro… nel tuo desiderio e nella tua lotta rivoluzionaria per una vita migliore per tutti, voglio accompagnarti e aiutarti, amarti e nella tua risata trovare la mia gioia. Se a volte soffri, voglio riempirti di tenerezza così che tu ti senta meglio. Quando hai bisogno di me, mi troverai sempre vicino a te. Sempre aspettandoti. E vorrei essere leggera e soffusa quando vuoi restare solo".

    Lei gli scriveva:

    "Perdonami se tutte queste cose che ti scrivo ti sembrano stupidità, ma credo che in amore non ci sia né intelligenza né stupidità, l’amore è come un aroma, come una corrente, come pioggia. Lo sai, mio cielo, tu piovi su di me e io, come terra, ti ricevo".

    Lui non la dimenticò mai. Quando a 85 anni morì i parenti trovarono una cesta in cui lui aveva custodito delicatamente tutto quello che aveva di lei: le sue preziose lettere e tanti piccoli oggetti che si erano scambiati nei loro incontri. Cimeli preziosi di un amore sospeso, tra quello che fu e quello che poteva essere e non è stato.
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  15. #23
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    Frequentare Chiese orientali mi ha confermato (se ce ne fosse stato bisogno) che la liturgia è l'archetipo supremo del destino e non solo del destino dei destini, quello di Cristo, ma del destino, semplicemente. È, per così dire, la suprema fiaba, quella a cui non si può resistere.

    Cristina Campo (Lettera a Rodolfo Quadrelli, Vigilia di Pentecoste, 1967)
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  17. #24
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    Mettermi ora davanti il dilemma – o marito o nulla? - Ora? - Ma è almeno antistrategico. Nulla io debbo rispondere… Abbiamo una fratellanza di spirito indiscutibile ed io vorrei indistruttibile. Non infrangere questi cristalli, Antonia.

    Frammento dell'ultima lettera di Dino Formaggio ad Antonia Pozzi.
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  19. #25
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    Antonello,
    perdona, ti prego, il mio lungo silenzio. Forse ti ho fatto soffrire: ci pensavo tanto, sai, in questi giorni, e questo aumentava il mio tormento. Ciò che ho sofferto e vissuto non ti posso dire: cose che sulla carta si dissolvono e inaridiscono sulle labbra. Cose che si sentono solamente.
    Ora sono calma, sicura, buona. Sì, Antonello: forse è orgoglio troppo grande il dirlo, ma mi sembra di essere veramente buona, ora. Sono ciò che devo essere.

    Lettera ad Antonio Maria Cervi – Milano, 26 aprile 1930
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  21. #26
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    Mi convinco sempre di più dell’incompatibilità di poesia e vita, come è in Tonio Kröger. Io sono adesso come Tonio Kröger nella tempesta, sono appena uscita alla riva, vivo ancora di atti che non so tradurre in parole.
    Forse – chissà – l’età delle parole è finita per sempre.

    Lettera a Vittorio Sereni – Pasturo, 13 agosto 1935
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  23. #27
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    Fordham, Domenica 1° ottobre 1848
    «Ho premuto sulle mie labbra la vostra lettera tante e tante volte, dolcissima Elena, bagnandola con lacrime di gioia o di “celeste disperazione”. Ma io — che così di recente, alla vostra presenza stessa, esaltavo (1) “il potere delle parole” — di qual valore sono ora per me le sole parole? Potessi credere all’efficacia delle preghiere al Dio del Cielo, vorrei inginocchiarmi, inginocchiarmi umilmente, in questa più fervida epoca della mia vita, inginocchiarmi invocando parole che potessero dischiudersi a voi, e potessero mettermi in grado di farvi vedere a nudo tutto il mio cuore. I miei pensieri, le mie passioni sembrano ora sommersi in un desiderio consumatore, il solo desiderio di farvi sapere, di farvi vedere quello per esprimere il quale non vi è voce umana; il fervore indicibile del mio amore per voi, poiché così bene io conosco la vostra natura di poeta, oh Elena Elena! che io sono sicuro, che se voi poteste soltanto guardare nel profondo dell’anima mia coi puri occhi del vostro spirito, non potreste fare a meno di dirmi quello, ahimè! che voi risolutamente lasciate inespresso. Mi dovreste amare anche solo per la grandezza del mio amore. Non è già tanto in questo freddo e triste mondo, l’essere amato? Oh, se io potessi almeno fare ardere nel vostro spirito il significato vero e profondo che io attribuisco a quelle tre parole sottolineate! Ma, ahimè! Lo sforzo è tutto vano e “io vivo e muoio inascoltato” […]».
    (1) «Il potere delle parole» è uno dei migliori poemi in prosa di Poe.

    Lettera scritta da Edgar Allan Poe all’amatissima Elena Whitman, la prima che le inviò.
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  25. #28
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    Il 28 marzo del 1941 la scrittrice inglese Virginia Woolf, durante l’ultima delle sue frequenti crisi depressive, si riempì le tasche di sassi e si lasciò annegare nel fiume Ouse, non lontano da casa. Lasciò una toccante lettera al marito Leonard Woolf.

    Carissimo,
    sono certa di stare impazzendo di nuovo. Sento che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. E questa volta non guarirò. Inizio a sentire voci, e non riesco a concentrarmi. Perciò sto facendo quella che sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la maggiore felicità possibile. Sei stato in ogni modo tutto ciò che nessuno avrebbe mai potuto essere. Non penso che due persone abbiano potuto essere più felici fino a quando è arrivata questa terribile malattia. Non posso più combattere. So che ti sto rovinando la vita, che senza di me potresti andare avanti. E lo farai, lo so. Vedi, non riesco neanche a scrivere come si deve. Non riesco a leggere. Quello che voglio dirti è che devo tutta la felicità della mia vita a te. Sei stato completamente paziente con me, e incredibilmente buono. Voglio dirlo – tutti lo sanno. Se qualcuno avesse potuto salvarmi, saresti stato tu. Tutto se n’è andato da me tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinarti la vita. Non credo che due persone possano essere state più felici di quanto lo siamo stati noi.
    V.’
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  27. #29
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    Nel 1854 il "Grande Bianco" di Washington (il presidente degli Stati Uniti) si offri' di acquistare una parte del territorio indiano e promise di istituirvi una "riserva" per il popolo indiano
    . Ecco la risposta del "capo Seattle", considerata ancora oggi la piu' bella, la piu' profonda dichiarazione mai fatta sull'ambiente.


    "Come potete acquistare o vendere il cielo, il calore della terra? L'idea ci sembra strana. Se noi non possediamo la freschezza dell'aria, lo scintillio dell'acqua sotto il sole come e' che voi potete acquistarli? Ogni parco di questa terra e' sacro per il mio popolo. Ogni lucente ago di pino, ogni riva sabbiosa, ogni lembo di bruma dei boschi ombrosi, ogni radura ogni ronzio di insetti e' sacro nel ricordo e nell'esperienza del mio popolo. La linfa che cola negli alberi porta con se' il ricordo
    dell'uomo rosso. Noi siamo una parte della terra, e la terra fa parte di noi. I fiori profumati sono i nostri fratelli, il cavallo, la grande aquila sono i nostri fratelli, la cresta rocciosa, il verde dei prati, il calore dei pony e l'uomo appartengono tutti alla stessa famiglia. Quest'acqua scintillante che scorre nei torrenti e nei fiumi non e' solamente acqua, per noi e' qualcosa di immensamente significativo: e' il sangue dei nostri padri.
    I fiumi sono nostri fratelli, ci dissetano quando abbiamo sete. I fiumi sostengono le nostre canoe, sfamano i nostri figli. Se vi vendiamo le nostre terre, voi dovrete ricordarvi, e insegnarlo ai vostri figli, che i fiumi sono i nostri e i vostri fratelli e dovrete dimostrare per fiumi lo stesso affetto che dimostrerete ad un fratello. Sappiamo che l'uomo bianco non comprende i nostri costumi. Per lui una parte di terra e' uguale all'altra, perche' e' come uno straniero che arriva di notte e alloggia nel posto che piu' gli conviene. La terra non e' suo fratello, anzi e' suo nemico e quando l'ha conquistata va oltre, piu' lontano.
    Tratta sua madre, la terra, e suo fratello, il cielo, come se fossero semplicemente delle cose da acquistare, prendere e vendere come si fa con i montoni o con le pietre preziose. Il suo appetito divorera' tutta la terra e a lui non restera' che il deserto.
    Non esiste un posto accessibile nelle citta' dell'uomo bianco. Non esiste un posto per vedere le foglie e i fiori sbocciare in primavera, o ascoltare il fruscio delle ali di un insetto. Ma forse e' perche' io sono un selvaggio e non posso capire. Il baccano sembra insultare le orecchie. E quale interesse puo' avere l'uomo a vivere senza ascoltare il rumore delle capre che succhiano l'erba o il chiacchierio delle rane, la notte, attorno ad uno stagno?
    Io sono un uomo rosso e non capisco. L'indiano preferisce il dolce suono del vento che slanciandosi come una freccia accarezza la faccia dello stagno, e preferisce l'odore del vento bagnato dalla pioggia mattutina, o profumato dal pino pieno di pigne. L'aria e' preziosa per l'uomo rosso, giacche' tutte le cose respirano con la stessa aria: le bestie, gli alberi, gli uomini tutti respirano la stesa aria. L'uomo bianco non sembra far caso all'aria che respira. Come un uomo che impiega parecchi giorni a morire resta insensibile alle punture. Ma se noi vendiamo le nostre terre, voi dovrete ricordare che l'aria per noi e' preziosa, che l'aria divide il
    suo spirito con tutti quelli che fa vivere.
    Il vento che ha dato il primo alito al Nostro Grande Padre e' lo stesso che ha raccolto il suo ultimo respiro. E se noi vi vendiamo le nostre terre voi dovrete guardarle in modo diverso, tenerle per sacre e considerarle un posto in cui anche l'uomo bianco possa andare a gustare il vento reso dolce dai fiori del prato. Considereremo l'offerta di acquistare le nostre terre.
    Ma se decidiamo di accettare la proposta io porro' una condizione: l'uomo bianco dovra' rispettare le bestie che vivono su questa terra come se fossero suoi fratelli. Che cos'e' l'uomo senza le bestie?
    Se tutte le bestie sparissero, l'uomo morirebbe di una grande solitudine nello spirito. Poiche' cio' che accade alle bestie prima o poi accade anche all' uomo. Tutte le cose sono legate tra loro. Dovrete insegnare ai vostri figli che il suolo che essi calpestano e' fatto dalle ceneri dei nostri padri. Affinche' i vostri figli rispettino questa terra, dite loro che essa e' arricchita dalle vite della nostra gente. Insegnate ai vostri figli quello che noi abbiamo insegnato ai nostri: la terra e' la madre di tutti
    noi. Tutto cio' che di buono arriva dalla terra arriva anche ai figli della terra. Se gli uomini sputano sulla terra, sputano su se stessi. Noi almeno sappiamo questo: la terra non appartiene all'uomo, bensi' e' l'uomo che appartiene alla terra. Questo noi lo sappiamo. Tutte le cose sono legate fra loro come il sangue che unisce i membri della stessa famiglia. Tutte le cose sono legate fra loro. Tutto cio' che si fa per la terra lo si fa per i suoi figli. Non e' l'uomo che ha tessuto le trame della vita: egli ne e' soltanto un filo. Tutto cio' che egli fa alla trama lo fa a se stesso. C'e' una cosa che noi sappiamo e che forse l'uomo bianco scoprira' presto: il nostro Dio e' lo stesso vostro Dio. Voi forse pensate che adesso lo possedete come volete possedere le nostre terre ma non lo potete. Egli e' il Dio dell'uomo e la sua pieta' e' uguale per tutti: tanto per l'uomo bianco quanto per l'uomo rosso. Questa terra per lui e' preziosa. Dov'e' finito il bosco? E' scomparso. Dov'e' finita l'aquila? E' scomparsa. E' la fine della vita e l'inizio della sopravvivenza".




    Io li odio i nazisti dell'Illinois...

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    Ci sono usignoli perfetti che tutta la vita del bosco tace per ascoltare.
    Ci sono piccoli usignoli apprendisti, che ripetono a lunghi intervalli la stessa frase – e qualche volta il maestro risponde, da un altro albero.
    Di tutto questo, infine, il miracolo sono le pause – come il cielo intorno a certe lune abbaglianti.

    Lettera di Cristina Campo a Remo Fasani, 3 settembre 1953
    Non avere mai paura di essere un papavero in un campo di giunchiglie.


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