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Siamo alla settima storia con protagonista il commissario Ricciardi e la prima cosa che mi sento di dire, è che questa saga comincia a dare preoccupanti segni di cedimento.
Anzi, a ben guardare, non è più nemmeno un giallo intorno al quale ruotano personaggi noti con le loro storie che si sviluppano e si intrecciano, ma una sorta di telenovela in cui scappa regolarmente il morto che serve a giustificare il lavoro dei due protagonisti principali (Ricciardi e Maione) che però, più che nelle indagini, sono seguiti nelle loro vicissitudini personali che ormai sono diventate noiose e ripetitive a un livello fastidioso.
Ricciardi che ciondola continuamente fra due donne e continua a fornire loro blande illusioni e cocenti delusioni. Queste ultime distribuite regolarmente a fine romanzo una volta ciascuna (stavolta non va alla festa di Livia, la volta prima non si presenta alla cena di Pasqua con Enrica), secondo una par condicio che sarebbe un ottimo modello per la commissione di vigilanza RAI in campagna elettorale.
Maione stavolta è geloso del belloccio sciupafemmine Fefè che "Esce pazzo per le femmine bionde brigadiè", guarda caso come sua moglie Lucia, mentre un'altra volta quasi muore di fame per essere magro come il fruttivendolo che fa il cascamorto con Lucia e la prossima volta chissà se capirà che sua moglie non è una zoccola ma è solo lui che è un pirla.
E il giallo arriva stancamente alla fine, con una chiusura troppo affrettata, dopo che un qualsiasi lettore di gialli ha capito almeno cento pagine prima chi è l'assassino e il movente non regala nemmeno un briciolo di sorpresa.
Molto deludente, specie se penso che ho già acquistato "a scatola chiusa" anche il seguente episodio.