Un film di Andrzej Wajda conStanislawa Celinska, Andrzej Chyra, Magdalena Cielecka, Alicja Dabrowska 2007


Per comprendere l’importanza di questo film è opportuno ricordare quanto avvenne più di mezzo secolo fa. Il 1° settembre 1939 la Germania invase la Polonia da ovest, sedici giorni dopo vi fu l’occupazione ad est da parte dell‘Unione Sovietica. Migliaia di soldati polacchi vennero imprigionati in campi di concentramento: per ordine di Stalin furono uccisi e i loro corpi fatti sparire. Terminata la guerra, l’Unione Sovietica addossò alla Germania lo sterminio. “Per non aver accettato tale tesi il governo di Varsavia in esilio fu dichiarato nemico della patria, mentre Churchill sentenziò che non era il momento di aprire contenziosi fra alleati, Roosevelt rimase muto e i criminali russi eressero un cippo commemorativo antitedesco” (Tullio Kezich). La menzogna venne mantenuta fino alla caduta del muro di Berlino: solo nel 1990 Mikhail Gorbaciov ammise la responsabilità del suo Paese. Un film doloroso e necessario. Un film-verità dal grande valore storico, ma non solo: Andrzej Wajda (ottantatré anni, Oscar alla carriera nel 2000) rappresenta un potente dramma umano centrando l’attenzione sulle donne degli ufficiali imprigionati che, inconsapevoli di quanto accaduto, aspettarono invano il ritorno dei propri cari: l‘accento è posto quindi soprattutto sulle sofferenze individuali, il che naturalmente serve ad avvicinare allo spettatore una pagina vergognosa che rischia l‘oblio.
“Un’opera solenne, ieratica, toccante e austera” (Il Secolo XIX) sulle incertezze, sulle illusioni, sul desiderio di sopravvivere nonostante tutto: senza giudicare nessuno ci vengono mostrati i compromessi, le omissioni, le viltà, le rinunce, le lotte con le proprie coscienze di un’intera popolazione. Con uno stile secco e asciutto, severo e distaccato, senza retorica né superflui pietismi, Andrzej Wajda (che ha dedicato il film alla memoria del padre, ufficiale polacco ucciso, e a quella della madre, tra le molte mogli ingannate per anni dalla menzogna sovietica) ha il merito di non instillare odio. Lo scopo è un altro: illustrare le conseguenze di una vergognosa bugia, far luce su un tema tabu ai tempi del comunismo in Polonia, ristabilire la verità, invitare a non dimenticare, rendere giustizia a tutte le vittime e a tutti i perseguitati



Basato su Post mortem (il libro di Andrzej Mularczyk) e sul diario del maggiore Adam Solski trovato durante l’esumazione del cadavere nel 1943, diviso in tre parti (la duplice occupazione e la cattura degli ufficiali da parte dei sovietici, l’apprendere dei polacchi del massacro di Katyn, le nuove generazioni di fronte alla menzogna), visivamente splendido e interpretato meravigliosamente, Katyn è un film di straordinaria intensità: 124 minuti, struggenti e angoscianti, che coinvolgono e turbano.
L’ultimo quarto d’ora sconvolge come raramente accade: tornando indietro nel tempo, vediamo quello che è veramente accaduto nella foresta di Katyn. Una vera e propria mattanza di una crudezza agghiacciante, quasi insostenibile.
Suggestivamente il film termina con un intero minuto di schermo completamente nero: di sottofondo le note del Requiem Polacco: Il Sogno di Giacobbe di Krzysztof Penderecki. “Non scorrono titoli di coda. Cala il silenzio in sala. Com’è giusto che sia”
(Movieplayer).
Scrive meritoriamente l’Unità: “Vederlo, per chi si è riconosciuto nella storia del comunismo, nelle sue grandezze e nelle sue tragedie, è compiere un atto di giustizia”.