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Discussione: Curiosità sul Giallo e dintorni

          
  1. #91
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    Parallelamente al romanzo poliziesco “psicologico”, in Francia si sviluppò il genere corrispondente all'Hard boiled americano che prese il nome di Polar. Il precursore del nuovo romanzo giallo francese è certamente Leo Malet, giornalista, amico di Breton e del gruppo dei surrealisti (da cui fu espulso proprio per la sua passione per il poliziesco), autore di poesie e romanzi, che nel 1943 inizia la pubblicazione di una serie di romanzi gialli raccolti sotto il titolo collettivo di “Les Nouvaux mystères de Paris” trasparente citazione de “I misteri di Eugene Sue” capolavoro del romanzo d'appendice ottocentesco e chiaro riferimento programmatico per una rifondazione del genere. Il suo primo libro è “120, rue de la gare” dove compare Nestor Burma, detective bohemien, cinico e sfortunato, le cui avventure proseguono con “Un delitto di troppo” e un'altra trentina di romanzi ambientati nei vari arrondissement parigini. Malet è anche autore della Trilogia Nera, composta da “La vita è uno schifo” del 1948, “Il sole non è per noi” del 1949 e “Nodo alle budella” del 1969.
    I gialli francesi dell'immediato dopoguerra devono molto alla nascita, nel 1945, di una collezione dedicata al Polar la “Série Noir” diretta da Marcel Duhamel che importando i romanzi classici del “nero” americano di autori come Dashiell Hammett, Raymond Chandler e James Hadley Chase, permise agli scrittori francesi di farsi le ossa traducendo spesso in modo più duro degli originali e usando il particolare gergo della malavita francese l'argot. Il programma che Duhamel propone ai suoi lettori non lascia dubbi: “Ci sono poliziotti più corrotti dei delinquenti che braccano. Il detective simpatico non sempre risolve il mistero. Spesso, non c'è neanche mistero. E a volte non c'è neanche il detective. E allora?... Allora ci sono azione, angoscia violenza sotto tutte le forme, pestaggi e massacri”.
    La “Série Noir” fu un fertile vivaio di giallisti come Albert Simonin, autore di “Grisbì”, grande affresco della delinquenza parigina, subito trasferito sul grande schermo in un film che ha come protagonisti Jean Gabin, Jeanne Moreau e Lino Ventura. “Grisbì” fu interamente pensato e scritto in argot, tanto che l'autore fu costretto ad allegare un dizionario dell'argot. Nella “Série Noir” pubblicarono sotto pseudonimo anche altri mostri sacri della cultura francese come Raymond Queneau (Sally Mara) e il cantautore Boris Vian (Vernon Sullivan), traduttore di Chandler e autore del controverso romanzo giallo “Sputerò sulle vostre tombe”. Tra gli altri autori della “Série Noir” sono da ricordare Jean Amila e soprattutto André Hèlena, autore di diversi straordinari romanzi che rievocano la cupa e oppressiva occupazione nazista della Francia. Questa è la bibliografia di André Hèlena, di recente riscoperto e pubblicato da Fanucci e da Aìsara : "Il gusto del sangue", "I viaggiatori del venerdì", "Un uomo qualunque", "I clienti del Central Hotel", "Il buon Dio se ne frega", "La vittima", "Il ricettatore", "Gli sbirri hanno sempre ragione", "Divieto di soggiorno", "Vita dura per le canaglie”, "Il festival dei cadaveri" e "Il bacio della Vedova".



    Il più prolifico e autentico rappresentante del romanzo “nero” francese è però Auguste Monfort, nato nel 1913 a Lesleven in Bretagna, conosciuto nel mondo della malavita e del romanzo poliziesco con il nome di battaglia di “Le Breton”. Orfano di guerra e assiduo frequentatore dei riformatori Le Breton conosce a fondo il mondo della delinquenza, da cui esce dopo aver scritto un romanzo autobiografico “Les hauts murs”, primo di una serie molto letta, che, scritto nel 1946 dovrà aspettare sette anni per essere pubblicato ma che alla fine fu un grande successo. Contemporaneamente ai primi libri autobiografici, Le Breton comincia a scrivere anche romanzi di malavita, direttamente in argot, su consiglio di un giornalista di Paris-Soir, Marcel Sauvage. Nasce così nel 1953 “Rififi”, storia di un clamoroso colpo in una gioielleria che finisce in un massacro perché una banda di balordi vuole impadronirsi del bottino. Tra i suoi numerosi Polar è da ricordare “Il clan dei siciliani” portato sullo schermo con Jean Gabin e Alain Delon.
    Un altro portabandiera del Polar fu Jean-Patrick Manchette, autore di alcuni notevoli gialli tra il 1970 e il 1995, anno della sua morte. Caratteristica dei suoi lavori - tra cui spiccano “Nada” (1972), “Un mucchio di cadaveri” (1973) e “Piovono morti” (1976) - è la realistica visione della violenza della società moderna che rende nei suoi libri con particolare vividezza.
    Un autore che invece si posiziona a metà strada tra Polar e romanzo psicologico è Pierre Magnan che ambienta i suoi romanzi nella provincia francese, sempre ricca di segreti inconfessabili e di intrighi sanguinosi. Tra i suoi romanzi più efficaci si segnalano “Il sangue degli Atridi”, “La polvere della morte”, “Morirai per ultima”, conosciuto anche col titolo “L'incerata nera” e “Messaggi di morte”.



    Tra tanti scrittori molto attenti all'aspetto realistico delle trame, si differenzia Sanantonio, pseudonimo di Frédéric Dard che ha costruito un universo umano e filosofico molto intrigante. Protagonista dei suoi gialli è proprio Sanantonio, commisario scanzonato e virile, plasmato sugli archetipi dei più fortunati investigatori americani e talvolta impligliato in vicende surreali ma molti divertenti. Mattatore di più di cento romanzi molto odiati oppure molto amati ("Lei è uno scrittore della mano sinistra: ha creato un nuovo linguaggio, in rilievo”, gli scrisse Jean Cocteau), Sanantonio è riuscito a creare un modo nuovo di scrivere, molto sarcastico, ricco di giochi di parole, di calembour, neologismi, citazioni nascoste che se lo ha reso estremamente popolare in Francia, è molto ostico da tradurre riducendo di molto la sua fortuna all'estero, tranne che in Italia dove è stato tradotto al meglio da alcuni ottimi specialisti. Nato nel 1950 con “Lasciate perdere la ragazza” Sanantonio ha avuto l'onore di una collana italiana edita da Mondadori, completamemente dedicata, “Le inchieste del commissario Sanantonio”.



    Più vicini a noi ed estremamente attivi politicamente, Serge Quadruppani e Didier Daeninckx rappresentano la “nouvelle vague” del giallo francese. Quadruppani, traduttore dei più noti scrittori italiani come Andrea Camilleri, Valerio Evangelisti, Marcello Fois e Wu Ming esordisce con il giallo “L'assassina di Belleville” seguito da “La breve estate dei colchici" e da “La notte di Babbo Natale”, romanzi tesi sino allo spasimo e ricchi di impegno sociale. Come Quadruppani, anche il suo amico Daeninickx rappresenta tutti gli orrori della società contemporanea e li porta davanti agli occhi di tutti scavando negli inconfessabili politici come nel romanzo “A futura memoria” che ha vinto nel 1984 il prestigioso Grand prix de litérature policière.
    “Non ho bisogno di tempo per sapere come sei: conoscersi è luce improvvisa” (P. Salinas)

  2. #92
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    Nel 1995 la “Série Noir” di Gallimard pubblicò “Casino totale” (Total Cheops) primo romanzo giallo di Jean-Claude Izzo, giornalista e scrittore marsigliese di origini italiane. In questo suo libro Izzo raffigura con grande abilità una città e un ambiente poco frequentato dal giallo riuscendo a farci percepire i colori e gli odori di questa metropoli a metà strada tra Francia e Mediterraneo.
    Scrittore pienamente rappresentativo assieme a Manuel Vázquez Montalbán, Andrea Camilleri e Petros Markaris del cosidetto “noir mediterraneo”, Izzo trasferisce le sue esperienze di vita nei suoi romanzi che costituiscono la trilogia marsigliese che, assieme al suo libro d'esordio, sono “Chourmo. Il cuore di Marsiglia” e “Solea”.
    Il protagonista di questa epopea mediterranea è Fabio Montale, ex poliziotto che diventa un investigatore privato che scandaglia con nostalgia e con amore tutti gli anfratti di questo crogiolo di razze e di lingue dove ha vissuto la sua adolescenza scapestrata e dove si fa fatica a distinguere nettamente la bellezza e la violenza dei posti e dei gesti.



    Dopo Izzo, il giallo francese ha avuto come esponente di spicco Fred Vargas, che all'anagrafe si chiama Frédérique Audouin-Rouzeau, ricercatrice di archeozoologia ed esperta di archivistica che nel tempo libero ha creato un vero e proprio mondo letterario ricco di fantasia e di originalità. I protagonisti dei libri della Vargas sono personaggi normali messi alla prova da situazioni particolari come i cosiddetti “Evangelisti”, tre storici che si dilettano a risolvere enigmi piuttosto complessi o come il commissario Jean-Baptiste Adamsberg soprannominato “lo spalatore di nuvole”, investigatore distratto e sognatore, ma che alla fine riesce sempre a sbrogliare la matassa degli incredibili casi che si trova ad affrontare.
    I romanzi che hanno Adamsberg come protagonista sono:
    1990: L'uomo dei cerchi azzurri (L'Homme aux cercles bleus) - Premiato al festival di St Nazaire 1992
    1999: L'uomo a rovescio (L'Homme à l'envers) - Gran premio del romanzo noir di Cognac 2000, Premio mystère de la critique 2000
    2001: Parti in fretta e non tornare (Pars vite et reviens tard) - Premio des libraires 2002, Premio delle lettrici di ELLE 2002, Deutscher Krimipreis
    2002: Scorre la Senna (Coule la Seine)
    2004: Sotto i venti di Nettuno (Sous les vents de Neptune)
    2006: Nei boschi eterni (Dans les bois éternels)
    2008: Un luogo incerto (Un lieu incertain)
    2011: La cavalcata dei morti (L'armée furieuse)
    I Tre Evangelisti invece compaiono nei libri “Chi è morto alzi la mano”, "Un po' più in la sulla destra” e “Io sono il Tenebroso”.



    Ai confini tra giallo tradizionale, horror e thriller si pone invece Jean-Cristophe Grangé, autore che ha avuto un grande successo con il suo secondo libro “I fiumi di porpora”, grazie anche alla riduzione cinematografica diretta da Mathieu Kassovitz e interpretato da due mostri sacri come Jean Reno e Vincent Cassel.
    Il primo romanzo di Grangé, “Il volo delle cicogne”, pubblicato nel 1994, ha già i tratti fondamentali dei successi dello scrittore e giornalista francese: grande ritmo narrativo, trama tesa e serrata, investigatori dagli opposti caratteri che si scontrano prima di unirsi nella ricerca del colpevole e fantasia sfrenata che talvolta sfiora il Grand Guignol anche a dispetto della verosimiglianza di alcuni aspetti del plot.
    I suoi libri successivi hanno avuto un successo mondiale sempre crescente ed ogni nuova uscita in libreria conferma la grande popolarità di questo autore molto originale.
    Questa è la sua bibliografia:
    1994 - Il volo delle cicogne (Le vol des cicognes), Garzanti
    1998 - I fiumi di porpora (Les rivières pourpres), Garzanti
    2000 - Il concilio di pietra (Le concile de pierre), Garzanti
    2003 - L'impero dei lupi (L'Empire des loups), Garzanti
    2004 - La linea nera (Le ligne noire), Garzanti
    2007 - Il giuramento (Le serment des limbes), Garzanti
    2008 - Miserere (Miserere), Garzanti
    2009 - L'istinto del sangue (La Foret Des Manes) Garzanti
    2012 - Amnesia (Amnesia) Garzanti
    “Non ho bisogno di tempo per sapere come sei: conoscersi è luce improvvisa” (P. Salinas)

  3. #93
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    Inghilterra, 1860. Una casa isolata dove avviene un rapimento che poi diventa un omicidio, un cane che abbaia, un ispettore scaltro e sagace che segue le piste visibili e segrete, un ambiente familiare che nasconde un assassino. Questi possono essere gli elementi di un buon giallo classico, “all'inglese” appunto, ma sono anche i punti fondamentali di un fatto criminale che scosse l'Impero britannico e che fu sulle prime pagine dei giornali inglesi per lungo tempo, scatenanando furiose polemiche politiche e religiose. Questo giallo della cronaca reale è l'oggetto del libro “Omicidio a Road Hill House” di Kate Summerscale, che segue passo passo tutti i fatti e le indagini che seguirono il misfatto.



    Nella villa del funzionario governativo Samuel Kent, posta poco fuori la cittadina di Road, nel Somerset, il 29 giugno 1860 scomparve misteriosamente il piccolo Saville di soli 3 anni, figlio della sua seconda moglie, che dormiva nella stanza assieme alla bambinaia. Quando questa si accorse della sparizione del bambino si scatenò una ricerca che portò dopo poco tempo alla scoperta del povero corpo di Saville gettato in una latrina. Incaricato delle indagini è il valido ispettore Jonathan Whicher che non si fa ingannare dai falsi indizi predisposti per depistarlo e in breve costruisce una teoria che individua il colpevole del reato nella sorellastra Costance, accecata dalla gelosia e desiderosa di infliggere dolore infinito alla matrigna che odia. Pur non sostanziato da prove ineccepibili, Whicher fa arrestare Costance e la porta davanti al giudice, che però la assolve. Alcuni anni dopo, convertita al cattolicesimo, Costance confessa parzialmente e con reticenza la sua colpa e viene arrestata nuovamente, condannata, essere poi liberata diversi anni dopo e finire la sua vita centenaria, nel 1944 in Australia.



    Nel suo libro la Summerscale ipotizza che Costance agì con la complicità del fratello William, che poi divenne un famoso botanico, anche lui geloso delle attenzioni che i fratellastri ricevavano dai genitori. Il saggio, oltre a fornire un puntuale resoconto del fattaccio e delle indagini, crea un'interessantissima cornice storica e letteraria all'omicidio, che fece nascere l'interesse sulla figura dell'investigatore e fu un probabile modello per diversi investigatori di carta come il sergente Cuff protagonista del romanzo “La pietra di luna” di Wilkie Collins, basato in parte sui tragici fatti di Road, e ispirò alcuni lavori di Charles Dickens.
    Questo aspetto di ricerca e studio del ruolo dell'investigatore è messo in luce dal sottotitolo “Invenzione e rovina di un detective” in quanto, sia pur capace di capire la dinamica del delitto, Whicher non ebbe la capacità di provarlo “senza nessuna ombra di dubbio” e la sua carriera fu notevolmente ostacolata da questo demerito.



    Libro che si legge come giallo “Omicidio a Road Hill House” è anche un valido strumento che consente di paragonare letteratura e vita vissuta, dove “I fatti non tornano come tornano i conti”, come sosteneva Friedrich Dürrenmatt, e getta un fascio di luce storica sui comportamenti sociali dell'Inghilterra vittoriana, luogo d'origine e d'elezione del giallo classico.
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  4. #94
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    Nel 2003 fu conferita al grande germanista Cesare Cases la Laurea honoris causa in Lingue e Letterature Straniere dall'Università di Bari e in questa occasione tenne una lectio magistralis su "Grandezza e decadenza del romanzo giallo". Questo è uno stralcio di quel discorso, compreso un piccolo errore sfuggito al grande studioso. Infatti il titolo originale del giallo di Agatha Christie Dalla nove alle dieci non è Why didn' t they ask Evans? (Perché non l'hanno chiesto a Evans?) ma The Murder of Roger Ackroyd.



    La casa editrice Sellerio, che ha approfittato, finché visse, della profonda competenza in materia di Leonardo Sciascia, all'origine di riscoperte di grandi gialli come Due rampe per l'abisso di Rex Stout o La fine è nota di Geoffrey Holiday Hall, ha tenuto fede al suo insegnamento pubblicando romanzi gialli di maggiore o minor valore, riscoprendo figure dimenticate come Friedrich Glauser e aprendo la strada del successo a Andrea Camilleri.
    L'ultima infornata di gialli Sellerio è particolarmente adatta a delineare una breve storia del genere. Enunciamo qui brevemente il giallo come l'intendiamo noi:
    1) l'assassino deve essere capace di intendere e di volere; egli può essere coadiuvato da una intera organizzazione ma quando agisce agisce individualmente;
    2) egli viene individuato da vari indizi coordinati da un detective che non fa necessariamente parte della polizia, spesso ne ironizza i metodi e generalmente non è sposato;
    3) questo detective si piazza all'interno della logica del delinquente, che finisce per intendere pienamente;
    4) la difficoltà nell' appurare la verità è dovuta al fatto che si vive in una società omogenea, in cui chiunque può essere l'assassino (anche il narratore, come nel caso famoso di Agatha Christie, Dalle nove alle dieci (Why didn' t they ask Evans?), poiché alla fine della corsa c'è sempre l'«auri sacra fames», che in epoca capitalistica è propria di tutti.
    Fissate così le caratteristiche del genere nella sua epoca classica, passiamo a esaminare le novità di Sellerio in ordine cronologico.
    Il primo volume che attira la nostra attenzione è La follia dei Monkton di Wilkie Collins. Apparentemente si tratta di un'anticipazione del problema dello psicopatico oggi dilagante, ma mentre oggi gli psicopatici sono all'ordine del giorno e non turbano minimamente la democrazia del giallo, allora erano custoditi in robusti armadi vittoriani e non si esibivano volentieri. Sicché si capisce che il sodale e datore di lavoro di Collins, Charles Dickens, si rifiutasse di pubblicarlo nella rivista da lui diretta. Collins era suo amico, ma ancor più amici erano i suoi lettori, che allora non avrebbero gradito un tema così delicato.
    Il mistero delle tre orchidee di Augusto De Angelis corrisponde invece ai dettami del giallo classico. De Angelis è il primo giallista italiano importante, il che non significa che abbia «inventato il giallo all'italiana», ma semplicemente che ha ambientato in Italia, e in particolare a Milano, motivi e personaggi propri della narrativa anglosassone. Nell'ambientazione milanese, De Angelis - che era, si noti bene, romano di origine - avrà un degno continuatore in Giorgio Scerbanenco, di origine straniera e spesso ristampato da Garzanti.
    «All'italiana» sono tutt'al più le difficoltà che questi pionieri ebbero ad affrontare. Il regime fascista aveva scarsa simpatia per un genere fondato sull'assassinio, che metteva in dubbio l'onnipotenza della polizia. Nel libro di De Angelis il detective è un commissario di polizia e i delinquenti vengono d'oltreoceano e hanno la determinazione di veri americani, mentre il commissario De Vincenzi è un intellettuale italiano amante della musica e delle belle arti. La scena è la casa di mode di Cristiana O'Brian, in corso del Littorio (oggi corso Matteotti) al nº 14. Sul letto della O'Brian si trova il cadavere di Valerio, losco individuo che fa da galoppino a madama O'Brian, con accanto un'orchidea che getta la predetta signora in un mare di disperazione: la O'Brian è stata sposata a un farabutto internazionale di nome Moran che aveva l'abitudine di portarle un'orchidea ogni volta che ricompariva dopo aver perpetrato qualche misfatto. La donna era scappata a Milano perché non ne voleva più sapere del gangster, che evidentemente l'aveva scovata. E cosi è. Crediamo di essere in porto quando è il gangster che muore con la sua brava orchidea accanto. L'assassina sarà certo la ex moglie, colei che è collegata sin dall'inizio con i delitti, avendo trovato in camera sua il primo cadavere e la prima orchidea. Così fa finta di credere il commissario De Vincenzi, ma così non è.
    Qui occorre inserire una parentesi sull'inverosimiglianza, un ingrediente del giallo che può esserci ma può anche non esserci, come in ogni opera di finzione, e che quindi non abbiamo annoverato tra quelli indispensabili. Ma a guardar bene ogni giallo, appartenendo al genere del romanzo «autoriale», in cui l'autore fa e disfa a suo piacimento, contiene qualche inverosimiglianza, salvo qualche capolavoro della Christie.
    Ora, è proprio contro la Christie e il suo famoso romanzo Assassinio sull' Orient Express che si appuntano gli strali di Raymond Chandler, uno dei massimi rappresentanti del giallo americano hard boiled, in uno scritto teorico che è in qualche modo il manifesto della nuova scuola. Non staremo a difendere la verosimiglianza di questo romanzo perché non esiste. In un vagone del famoso treno si trovano riuniti un arcifarabutto che è riuscito sempre a farla franca grazie all'inefficienza della polizia e le sue vittime o i parenti di esse, che evidentemente hanno prenotato e riempito il vagone in cui si è peraltro insinuato un temibile ometto di nome Hercule Poirot. Uno dopo l'altro le vittime o i loro parenti immergono il coltello nel corpo del farabutto, che così risulta colpito da ben diciassette pugnalate (se ricordo bene). Anziché ammirare l'acume di Poirot che riesce a dipanare la complicata matassa, Chandler da un punto di vista piattamente naturalistico si meraviglia dell'inverosimiglianza di un cadavere ottenuto «a fette».
    Con Un matrimonio d' amore di Dashiell Hammet passiamo nel regno dell’hard boiled, di cui Hammet è considerato il fondatore. Basta un'apposizione per definire due caratteristiche essenziali del giallo hard boiled nei confronti di quello di tradizione inglese:
    l) è scritto assai meglio;
    2) il peso del racconto si sposta dal binomio assassino/vittima al detective e alla sua personalità.
    Nel racconto in questione il detective Rush è di una bruttezza senza pari, che ha bisogno di un'intera pagina per essere descritta. Tale bruttezza sarà antitetica alla bellezza dell'autore, il quale pare che fosse bellissimo e affascinante, certo più di Agatha Christie. Aveva lavorato presso l'agenzia Pinkerton e quindi conosceva bene i suoi colleghi e i delitti che perseguivano o che commettevano essi stessi. Infatti gli anni passati da Pinkerton erano serviti a persuaderlo dell'inesistenza di un discrimine tra buoni e cattivi, su cui era fondato il giallo tradizionale. Pagatemi abbastanza e divento un killer. Il titolo italiano di questo racconto è ironico solo a metà. Henry Bangs è un farabutto in combutta con una donna di nome Madeline, entrambi ordiscono la morte di tale Falsoner e fanno in modo da attribuirla alla nipote Sara, unica erede di un mucchio di dollari, che Bangs aveva preventivamente sedotto e sposato. L'idea è che o Sara viene accusata di omicidio o il malloppo passa a lei, che prima o poi sarà soppressa. Ma Bangs ha imparato ad apprezzare le virtù di Sara ed è Madeline ad essere fatta fuori da lui.
    Non c' è dubbio: questa storia è più «realistica» di qualsiasi romanzo della Christie, poiché non solo non esiste una netta divisione tra buoni e cattivi, sicché un killer può nutrire teneri sentimenti, ma il caso riprende il ruolo che aveva perduto. Non che il giallo classico fosse privo di elementi accidentali, anzi ne pullulava, ma essi erano un'invenzione dell'autore, mentre qui hanno il ruolo che viene loro attribuito nella vita quotidiana.
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  5. #95
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    Un omicidio che ispirò tanti letterati, come Stendhal e Alberto Moravia, e offrì a Caravaggio diversi temi per la sua pittura così rivoluzionaria ed evocativa è l'omicidio del Conte Francesco Cenci ad opera dei familiari, tra cui spicca la figura della figlia Beatrice.



    Questa è la rievocazione della vicenda tratta da wikipedia:

    Figlia del conte Francesco Cenci, uomo violento e dissoluto, e di Ersilia Santacroce, dopo la morte della madre, nel giugno del 1584, insieme con la sorella maggiore Antonina fu mandata, all'età di 7 anni, presso le monache francescane del Monastero di Santa Croce a Montecitorio. Ritornata in famiglia all'età di quindici anni vi trovò un ambiente quanto mai difficile e fu costretta a subire le angherie e le insidie del padre che, poco dopo, nel 1593, sposò in seconde nozze la vedova Lucrezia Petroni, che aveva già una figlia (uccisa dal padre di Beatrice), dalla quale non ebbe figli.



    L'esilio a Petrella
    Francesco, oberato dai debiti, incarcerato e processato per delitti anche infamanti, condannato due volte per "colpe nefandissime" al versamento di somme rilevanti, pur di non pagare la dote di Beatrice volle impedirle di sposarsi e decise nel 1595 di segregarla, insieme con la matrigna Lucrezia, a Petrella Salto, in un piccolo castello del Cicolano chiamato la Rocca, nel territorio del Regno di Napoli, di proprietà della famiglia Colonna. In quella forzata prigionia crebbe il risentimento di Beatrice verso il padre. La ragazza tentò anche, con la complicità dei domestici, di inviare richieste di aiuto ai familiari ed ai fratelli maggiori, ma senza alcun risultato. Una delle lettere arrivò, anzi, nelle mani del conte provocandone la dura reazione: Beatrice fu brutalmente percossa.
    Nel 1597 Francesco, malato di rogna e di gotta, anche per fuggire alle richieste pressanti dei creditori, si ritirò a Petrella portando con sé i figli minori Bernardo e Paolo, e le condizioni di vita delle due donne divennero ancora peggiori.

    L'omicidio
    Si dice che, esasperata dalle violenze e dagli abusi paterni, Beatrice giungesse alla decisione di organizzare l'omicidio di Francesco con la complicità della matrigna Lucrezia, i fratelli Giacomo e Bernardo, il castellano Olimpio Calvetti ed il maniscalco Marzio da Fioran detto il Catalano.
    Per due volte il tentativo fallì: la prima volta si cercò di sopprimerlo con il veleno, la seconda con una imboscata di briganti locali. La terza, stordito dall'oppio fornito da Giacomo e mescolato ad una bevanda, fu assalito nel sonno: Marzio gli spezzò le gambe con un matterello, Olimpio lo finì colpendolo al cranio ed alla gola con un chiodo ed un martello. Per nascondere il delitto i congiurati tentarono di simulare una morte accidentale per caduta: fu aperto un foro nelle assi marce di un ballatoio tentando di infilarci il cadavere. La cosa non riuscì: il foro era troppo piccolo. Decisero allora di gettarlo dalla balaustra.
    Il 9 settembre 1598 il corpo di Francesco fu trovato in un orto ai piedi della Rocca di Petrella. Dopo le esequie il conte fu sepolto in fretta nella locale chiesa di Santa Maria. I familiari, che non parteciparono alle cerimonie funebri, lasciarono il castello e tornarono a Roma nella dimora di famiglia, Palazzo Cenci, nei pressi del Ghetto.

    Le indagini
    Inizialmente non furono svolte indagini, ma voci e sospetti alimentati dalla fama sinistra del conte e dagli odi che aveva suscitato nei suoi congiunti, indussero le autorità ad indagare sul reale svolgimento dei fatti.
    Dopo le prime due inchieste (la prima voluta dal feudatario di Petrella il duca Marzio Colonna, la seconda ordinata dal viceré del Regno di Napoli Don Enrico di Gusman, conte di Olivares) lo stesso pontefice Clemente VIII volle intervenire nella vicenda.
    La salma fu riesumata e le ferite furono attentamente esaminate da un medico e due chirurghi che esclusero la caduta come possibile causa delle lesioni. Fu anche interrogata una lavandaia: Beatrice le aveva chiesto di lavare lenzuola intrise di sangue dicendole che le macchie erano dovute alle sue mestruazioni, ma la giustificazione - dichiarò la donna - non le sembrò verosimile. Insospettì gli inquirenti inoltre l'assenza di sangue nel luogo ove il cadavere era stato rinvenuto.
    I congiurati vennero scoperti ed imprigionati. Calvetti, minacciato di tormenti, rivelò il complotto. Riuscito a fuggire, fu poi fatto uccidere da un conoscente dei Cenci, monsignor Mario Guerra, per impedirne ulteriori testimonianze. Anche Marzio da Fioran, sottoposto a tortura, confessò ma, messo a confronto con Beatrice, ritrattò e morì poco dopo per le ferite subite. Giacomo e Bernardo confessarono anch'essi. Beatrice inizialmente negò ostinatamente ogni coinvolgimento indicando Olimpio come unico colpevole, ma la tortura della corda ne vinse ogni resistenza e finì per ammettere il delitto.
    Acquisite le prove, i due fratelli Bernardo e Giacomo furono rinchiusi nel carcere di Tordinona, Beatrice e Lucrezia in quello di Corte Savella.

    Il processo
    Il processo fu affidato al giudice Ulisse Moscato ed ebbe un grande seguito pubblico. Nel dibattimento si affrontarono due tra i più grandi avvocati dell'epoca: l'alatrese Pompeo Molella per l'accusa e Prospero Farinacci per la difesa. Farinacci nel tentativo di alleggerire la posizione della giovane accusò Francesco di aver stuprato la figlia, ma Beatrice nelle sue deposizioni non volle mai confermare l'affermazione del difensore. Alla fine prevalsero le tesi accusatorie di Molella e gli imputati superstiti vennero tutti giudicati colpevoli e condannati a morte. Si noti che il processo fu funestato da alcuni vizi procedurali a danno dei Cenci, tra i quali quello di impedire all'avvocato difensore la pronuncia della sua arringa conclusiva ammettendolo in aula solo a sentenza emessa.
    Cardinali e difensori inoltrarono richieste di clemenza al pontefice ma Clemente VIII, preoccupato per i numerosi e ripetuti episodi di violenza verificatisi nel territorio dello stato, volle dare un severo ammonimento e le respinse: Beatrice e Lucrezia furono condannate alla decapitazione, Giacomo allo squartamento. Solo per Bernardo il pontefice acconsentì alla commutazione della pena.
    Bernardo, il fratello minore, di soli diciotto anni, pur non avendo partecipato attivamente all'omicidio era stato anch'esso condannato per non aver denunciato il complotto ma, per la sua giovane età, ebbe risparmiata la vita: gli fu imposta la pena dei remi perpetui, cioè remare per tutta la vita sulle galere pontificie, e fu obbligato inoltre ad assistere all'esecuzione dei congiunti legato a una sedia. In aggiunta, la notizia della commutazione della pena gli fu deliberatamente nascosta e comunicata solo poche ore prima della scampata esecuzione. Solo alcuni anni più tardi, dopo il pagamento di una grossa somma di denaro, riottenne la libertà.

    L'esecuzione
    L'esecuzione di Beatrice, della matrigna e del fratello maggiore avvenne la mattina dell'11 settembre 1599 nella piazza di Castel Sant'Angelo gremita di folla. Tra i presenti anche Caravaggio insieme con il pittore Orazio Gentileschi e la figlioletta, anch'essa futura pittrice, Artemisia. La giornata molto afosa e la calca provocarono la morte di alcuni spettatori; qualcun altro cadde ed annegò nel Tevere.

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  6. #96
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    Una vicenda tra le più intricate, torbide e morbose della storia italiana è quella del "Mostro di Firenze".
    Le indagini sui delitti del cosiddetto “Mostro di Firenze” sono state influenzate, depistate o innervate da numerosi libri, saggi, romanzi, reportage e inchieste giornalistiche, ma il contributo più notevole alla comprensione di ciò che avvenne tra il 1968 e il 1985 nella provincia di Firenze mi pare quello scritto da Michele Giuttari, che fu dal 1995 al 2003 capo della squadra mobile del capoluogo toscano e che scoprì le prove che hanno fatto condannare i “compagni di merende” di Pacciani. Nel libro “Il mostro” Giuttari ripercorre la storia dei delitti attribuiti al “mostro” e lo sviluppo delle indagini che, partite con grande dispiego di mezzi e di denaro, si arenarono senza portare ad un arresto convincente e sostenuto da prove decisive. Forse era errato l'assunto di partenza determinato dai “profiler” che indicavano un assassino gelido, di cultura medio-alta. Come scrive Giuttari nel libro “A differenza dei gialli di carta, un'indagine vera non procede a colpi di scena ma si alimenta di piccoli passi che si conquistano in una routine quotidiana apparentemente piatta”.
    E' stata questa routine a fare emergere i fatti salienti di queste morti terribili, nate in un ambiente malsano costituito da violenze, ricatti, satanismo e intimidazioni, ma non ha consentito, anche per forti ostacoli interni alla Questura, di salire al livello superiore di questa turpe associazione a delinquere. Per i delitti del “mostro di Firenze” sono stati condannati i “compagni di merende” Mario Vanni e Giancarlo Lotti, mentre Pietro Pacciani, colui che è stato indicato dagli amici come l'anima nera del gruppo di guardoni e assassini, è stato assolto in appello, anche per una sciagurata strategia processuale. Questa assoluzione è stata poi annullata ma il contadino di Mercatale non ha potuto presenziare al nuovo processo d'appello perché è deceduto in circostanze piuttosto sospette nel febbraio del 1998. Se la lunga storia di questi omicidi è stata decifrata nei suoi aspetti principali, non mancano le zone d'ombra da chiarire e che lasciano la pungente sensazione che i misteri non si siano voluti indagare sino in fondo. A questo proposito è emblematica la morte del medico Francesco Narducci avvenuta nel lago Trasimeno nel 1985, subito dopo gli ultimi delitti, e mai spiegata in modo convincente. Michele Giuttari prima di questa sua esauriente rievocazione del caso, aveva scritto assieme a Carlo Lucarelli ”Compagni di sangue”, primo tentativo di districare l'ingarbugliata e sanguinosa matassa.
    Oltre a queste testimonianze in prima persona, Giuttari ha dimostrato grande capacità letteraria con diversi romanzi gialli come “Scarabeo”, “La loggia degli innocenti” e “Il basilisco”, dove il caso “mostro di Firenze” aleggia in sottofondo, sia con riferimenti ben chiari, sia come ambientazione e come atmosfere.



    Altri protagonisti di questo vero e proprio giallo infinito hanno fissato con l'inchiostro le loro ipotesi, inchieste e anche i loro depistaggi. Forse il più noto tra questi testimoni diretti del caso è l'avvocato di Mario Vanni, Nino Filastò, le cui esperienze letterarie erano precedenti al processo con romanzi gialli di buon livello e di un certo successo come “La tana dell'oste”, “La moglie egiziana” e “La notte delle rose nere”. Filastò intervenne nel dibattito mediatico con due libri che peroravano la causa di Pacciani, “Pacciani innocente” e “Storia delle merende infami”.

    Un altro personaggio di questo dramma a scrivere un libro è stato il giornalista della Nazione di Firenze Mario Spezi, duramente contestato da Michele Giuttari e che fu anche arrestato con l'accusa di depistaggio, per poi essere completamente scagionato da ogni accusa. Mario Spezi nel 2006 scrisse un romanzo-inchiesta “Dolci colline di sangue” assieme al notissimo scrittore Douglas Preston, autore di thriller come “Mount Dragon”, “Relic”, “La stanza degli orrori”.



    Lo psicologo del SISDE Aurelio Mattei, anche lui pesantemente coinvolto nel caso, ha scritto nel 1992 un romanzo “Coniglio il martedì” in cui anticipava gran parte delle scoperte fatte dagli investigatori fiorentini negli ultimi anni.



    A testimoniare il fatto che il caso sia stato di grande interesse mediatico arrivò anche il celebre Thomas Harris, autori di bestseller come “Il silenzio degli innocenti” e “I delitti della terza luna” che nel 1995 presenzio al processo a Pietro Pacciani per documentarsi sull'ambiente fiorentino che poi illustrò nel romanzo “Hannibal”, ricco di richiami e rimandi al “mostro”.

    Chiari e documentati resoconti delle indagini e della successione di fatti sono anche presenti nei libri di Massimo Polidoro “Grandi gialli della storia” al capitolo “Chi si nasconde dietro il mostro di Firenze” e di Carlo Lucarelli “I nuovi misteri d'Italia” nel capitolo “I mostri di Firenze”.
    “Non ho bisogno di tempo per sapere come sei: conoscersi è luce improvvisa” (P. Salinas)

  7. #97
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    Io di GIUTTARI avevo letto, tempo fa, SCARABEO, che mi era piaciuto moltissimo.
    Ma, come tu sai, talvolta si ...abbandonano anche degli autori che sono piaciuti, per mancanza di tempo!
    ciao
    Rosy
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  8. #98
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    Io di GIUTTARI avevo letto, tempo fa, SCARABEO, che mi era piaciuto moltissimo.
    Ma, come tu sai, talvolta si ...abbandonano anche degli autori che sono piaciuti, per mancanza di tempo!
    ciao
    Rosy
    Eh già, Rosy, mancanza di tempo, desiderio di conoscere nuovi autori, molteplicità di interessi... una cosa è certa: bisogna fare delle scelte.
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  9. #99
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    New York, fine degli anni venti. Al “Roman Theatre” mentre è in corso la rappresentazione della commedia “Il gangster” viene rinvenuto il corpo senza vita di quello che si rivelerà un ricattatore ed un losco individuo Montz Field. Questa la è scena in cui irrompe l'investigatore più geniale della storia del giallo: Ellery Queen. Il libro, pubblicato nel 1929, si intitola in italiano “La poltrona n° 30”, ma il titolo inglese è particolare. Infatti “The Roman Hat Mystery” inaugura una serie definita dallo schema The + aggettivo di nazionalità + sostantivo + mystery, che ricorda lo schema caratteristico dei romanzi di S.S. Van Dine che hanno Philo Vance come protagonista che presentano The + sostantivo + murder case come marchio di fabbrica.



    Non è questo il solo richiamo al sofisticato detective creato da Van Dine nei romanzi di Ellery Queen, che è stato chiaramente plasmato sul modello creato tre anni prima nel libro “La strana morte del signor Benson”. Avendo, come Vance, un progenitore diretto in Sherlock Holmes, Ellery Queen focalizza le sue indagini sul ragionamento logico deduttivo che porta a livelli eccelsi, lasciando il lavoro sporco, quello di fare le indagini materiali, alla squadra coordinata dal padre, l'ispettore della polizia di New York Richard Queen.
    Scritto per partecipare ad un concorso, che poi vinsero, “La poltrona n° 30” fu scritto da due cugini ventiquattrenni Manfred B. Lee e Frederic Dannay che scelsero di firmarsi come il protagonista delle loro storie, per dare più visibilità al loro eroe.
    Richard ed Ellery rappresentano i due aspetti dell'investigazione: la raccolta delle prove e l'elaborazione di queste attraverso un percorso logico e psicologico. Sono, in pratica, un'unica persona, un unico detective che, per il fatto di essere sdoppiato, nella finzione letteraria, in due personaggi distinti, risulta più umano, più reale, senza avere la boria e la presunzione dei detective che lo hanno preceduto.
    Tutti i rompicapo che la premiata ditta Ellery Queen ha prodotto in più di quarant'anni di onorata carriera rispondono in genere ad un connotato fondamentale: sono delle perfette scatole cinesi. Prima di arrivare alla soluzione dell'enigma, si è sempre costretti ad aprire, con estrema attenzione, tutta una serie di scatole successive, a chiarire un'infinità di piccoli o grandi misteri che, in genere, con la soluzione vera e propria non hanno molto a che fare, ma che in realtà rispondono a due scopi ben precisi: distrarre il lettore dalla pista giusta, senza barare con lui, e creare una cornice psicologica nella quale inserire gli sviluppi della vicenda e giustificarne la conclusione.
    Una delle prima scatole cinesi nella quale ci si imbatte è proprio la loro identità, infatti i loro veri nomi sono Manford Lepofsky e Daniel Nathan, essendo figli di poverissimi immigrati polacchi costretti a nascondersi dietro pseudonimi perché quello era un periodo in cui spirava una brutta aria per gli europei di lingua non inglese.
    Un altro dei misteri della loro lunga carriera è stato quello della stesura di molti libri firmati con il famoso nome "Ellery Queen". A partire dal romanzo del 1958 “Colpo di grazia”, che doveva essere l'ultimo dell'investigatore, infatti diversi gialli furono scritti da altri autori su tracce predisposte da Frederic Dannay e portarono ad una connotazione da una parte ancora più definita dal punto psicologico delle trame come in “Bentornato Ellery” e “...e l'ottavo giorno...”, mentre in seguito si ebbe uno spostamento d'interesse verso tematiche più noir, che sconfinarono anche nel versante spionistico.



    Un'altra delle diversioni e dei depistaggi dei due gemelli siamesi si verificò nel 1932 quando, forse stanchi del successo del loro ingombrante personaggio, crearono un nuovo detective Drudy Lane, pubblicandolo con un altro pseudonimo Barnaby Ross.
    Come suggerisce il suo nome che richiama un celebre teatro londinese, Drudy Lane è un ex attore scespiriano ritiratosi dalle scene che per diletto si interessa a risolvere enigmi polizieschi. Il suo romanzo d'esordio è “La tragedia di X”, in cui il procuratore Bruno e l'ispettore Thumm pregano Drury Lane di aiutarli a risolvere l'assassinio di un agente di cambio senza scrupoli. A questo libro seguirono “La tragedia di Y”, “La tragedia di Z” e “Cala la tela”, in cui la vicenda ruota intorno ad un manoscritto di Shakespeare rubato da un museo di New York e che contiene un finale davvero sorprendente.



    Nel tempo Ellery Queen è diventato sinonimo di investigatore infallibile e di scrittore affascinante anche grazie all'innovazione della Sfida al lettore, in cui l'autore porta il fedele lettore nel romanzo mettendolo in competizione con sé e con la trama: "Fedele al mio motto, giocare franco con il lettore, vi ho dato le carte che ho anch'io in mano. Tutto quello che so io, lo sapete anche voi. Mettete nell'ordine conveniente le indicazioni che vi ho fornito e la conclusione logica si presenterà da sé alla vostra mente indicando il solo assassino possibile".
    Un altro merito dei due scrittori è di aver creato l'Ellery Queen's Mystery Magazine, la rivista creata nel 1941 e che ha pubblicato e pubblica ancora quanto di meglio ci sia in materia di romanzi gialli.

    (continua)
    “Non ho bisogno di tempo per sapere come sei: conoscersi è luce improvvisa” (P. Salinas)

  10. #100
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    Nato quasi per caso, Ellery Queen divenne in breve tempo l'investigatore più amato ed ammirato dai lettori di gialli. Per capire le ragioni di questa predilezione e per definire la cronologia della produzione queeniana penso sia utile dare la parola a Francis M. Nevins Jr scrittore di gialli che scrisse un saggio su Ellery Queen molto interessante “Royal Bloodline. Ellery Queen Author and Detective” che è stato tradotto in italiano soltanto nelle introduzioni ai racconti di Ellery Queen editi da Mondadori nel 1984.



    "I libri prodotti da Dannay e Lee in questi primi anni, da The Roman Hat Mystery fino a The Spanish Cape Mystery sono di solito considerati come il Primo Periodo di Queen. L'inconfondibile marchio di fabbrica di tale periodo è il ripetersi degli aggettivi di nazionalità nei titoli (aggettivi molte volte non pertinenti ma di sicura riconoscibilità). Un altro segno distintivo, più significante ma meno evidente, è l'enorme influsso esercitato da Van Dine, influsso che cominciò a diradarsi intorno al 1932 per svanire poi completamente (come pure il fascino di Van Dine suoi lettori) nel 1935. L'Ellery fittizio di questi primi 'Problemi di deduzione' è un saccente capace di spiccicare paroloni, avvolto in un toga di allusioni classicheggianti e con tanto di pince-nez... in breve un'imitazione ravvicinata di Philo Vance o, come lo definì Manfred Lee in anni più recenti, il più grande presuntuoso con la puzza sotto il naso mai sceso in terra. Per coloro che non amano il Queen del Primo Periodo, un gruppo che apparentemente include gli stessi autori a giudicare dalle interviste rilasciate verso la fine della vita di Lee, questi romanzi sono sterili, privi di vita, esercitazioni spietatamente intellettuali, tecnicamente eccellenti ma privi di ogni traccia di personalità umana, di calore e di emozioni che non siano le passioni della mente. Per quelli che invece amano il Primo Periodo, incluso il sottoscritto e la maggior parte dei Queenofili, questi libri sono splendidi tour de force inventivi e non sono affatto privi di interesse per quanto concerne l'umanità dei personaggi o altri elementi fondamentali ma toccherà ai lettori giudicare”.



    "Il secondo romanzo di Queen, The French Powder Mystery (Sorpresa a mezzogiorno) del 1930, è ancora più sorprendente del primo, almeno sotto il profilo tecnico. Si apre la mattina di martedì 24 maggio, con una riunione ad alto livello della polizia nell'appartamento dei Queen, sull'atteggiamento da tenere contro dei grossi trafficanti di droga, ma poco dopo l'aggiornamento della riunione i due Queen vengono distolti dalla droga (o almeno così sembra) e posti di fronte ad un omicidio. Il cadavere di Winifred Marchbanks French è ruzzolato fuori da un letto pieghevole a muro in una vetrina dei favolosi Grandi Magazzini French, cogliendo piuttosto alla sprovvista tanto la modella quanto la folla che osservava dall'esterno. (…) Se tuttavia i Grandi Magazzini French sono enormi, gli indizi concreti relativi all'omicidio sono minimi. Nella borsetta della donna uccisa c'è un rossetto che non combacia con quello sulle sue labbra. Un pezzo di feltro verde che protegge la parte inferiore di un fermalibri di onice non è della stessa tonalità di colore del feltro sul fermalibri appaiato. Un cappello e un paio di scarpe non si trovano nel luogo in cui dovrebbero essere. Partendo da simili minuzie Ellery forgia una catena di logica ferrea in una scena di crescendo che Anthony Boucher ha lodato come l'epilogo probabilmente costruito in modo più ammirevole di tutta la storia della narrativa poliziesca. Queen tiene nascosto il nome dell'assassino attraverso trentacinque pagine, piuttosto fitte, di spiegazioni, in pratica fino alle ultime due parole del romanzo, un'impresa che non ha praticamente uguali nel genere”.

    (continua)
    “Non ho bisogno di tempo per sapere come sei: conoscersi è luce improvvisa” (P. Salinas)

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