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maureen
05-April-2014, 22:39
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Dal sito Sellerio :

Questa è la storia di Samuel Ben Nissim Abul Farag, di Guglielmo Raimondo Moncada, di Flavio Mitridate. Non si tratta di tre persone ma di un solo individuo.


Non è, questo, un romanzo d’ambiente; di costume. Non è un romanzo storico. È una potente azione narrativa. Se nel gioco degli scacchi l’obiettivo finale è catturare il re, le modalità operative e di ricerca di questa opzione strategica forzano il silenzio e le tenebre della storia, per affrontare il mistero di un’«ombra», penetrare nelle tante maschere di un volto che si può pensare ma non conoscere, catturare la personalità artificiosa di un protagonista di eventi reali che con infame talento si evolve su se stesso e sotto più nomi si tramuta; e restituire, infine, alle necessità del racconto, il lato oscuro, la metà notturna e fosforica della civiltà dell’Umanesimo raggiante di cultura. Qui Camilleri gioca a scacchi con l’imponderabile. Le strade del suo personaggio si moltiplicano, si confondono, si scambiano l’una con l’altra. Partono dalla giudecca di Caltabellotta, in Sicilia, e lungo il Quattrocento si inoltrano nei labirinti delle capitali, delle corti piccole e grandi, degli studioli umanistici, delle Accademie e delle Università; nella geografia politica della penisola italica e delle remote contrade di là delle Alpi. Il lettore fa il possibile per recuperare il fiato. Una pagina tira l’altra, vorticosamente. Tra vari avvisi di pericolosità e d’orrore, il protagonista del romanzo sprigiona intelligenza perversa, crudeltà e spietatezza. È un ebreo convertito, poliglotta: esperto soprattutto in lingue orientali. Il mondo si arrende alla sua oratoria. E lui aizza alla persecuzione e all’aggressione degli ebrei, predatore dei correligionari di una volta. Si fa traduttore e maestro di letteratura cabbalistica. Mette a disposizione degli umanisti (e fra essi Giovanni Pico della Mirandola) la kabbaláh ebraica. Ha una sua maniera gelida di ricorrere al delitto. E se talvolta la sua temperatura è umana, è perché si riscalda alla fermentazione dei desideri quando si incontra con ragazzi sgarbati o consenzienti, armati sempre di bellezza. Il romanzo segue fino alla sparizione (e non si sa se chiamarla disfatta, morte, uscita di scena, o cos’altro) l’arco della vita del protagonista, che all’inizio è un adolescente chiamato Samuel ben Nissim Abul Farag; e poi una sciarada di nomi, un emblema tricefalo dell’infamia, un enigma espugnabile solo con gli strumenti di una letteratura disposta ad accettare come centro il proprio bordo di finzione, prossima a essere un «falso» d’arte che svela le «falsità» del reale: «un falso, in quanto mistificazione d’una mistificazione, equivale a una verità alla seconda potenza». La frase citata da Camilleri è di Italo Calvino. Ed è la geometrizzazione di un principio barocco passato attraverso l’illuminismo del Consiglio d’Egitto di Leonardo Sciascia.

http://sellerio.it/it/catalogo/Inseguendo-Un-Ombra/Camilleri/7378

maureen
05-April-2014, 22:42
La sua casa romana è piena di libri. Rigorosamente sistemati in ordine alfabetico, nella grande libreria che abbraccia la stanza. Dal pavimento fino al soffitto. Ma è solo metà dell’immensa raccolta di volumi che abita in casa di Andrea Camilleri. Lui quei libri li ha letti tutti. «Quasi tutti» precisa sorridendo, sigaretta in mano e voce potente ma piena di garbo ed ironia.

A 88 anni è uno degli autori più prolifici del panorama letterario italiano, grazie all’inappagabile curiosità che resta la sua principale fonte di ispirazione. «Insieme alla lettura. Leggere è una grande scuola, la mia regola era almeno un libro al giorno».

Nasce così anche la sua nuova «macchina narrativa», Inseguendo un’ombra (Sellerio), ispirata alla storia vera di un misterioso personaggio, un ebreo siciliano del XV secolo, Samuel ben Nissim Abul Farag, convertitosi al cristianesimo per puro opportunismo con il nome di Guglielmo Raimondo Moncada, feroce persecutore della sua stessa gente e uomo di fiducia dei più alti prelati romani, poi «caduto in grave errore» (forse un omicidio) e per questo costretto a reinventarsi una terza identità, quella di Flavio Mitridate, maestro di lingue e cabala di Pico della Mirandola. Una storia che Camilleri apprende nell’estate del 1980 in casa dell’amico pittore Arturo Carmassi, leggendo la presentazione al catalogo di una sua mostra del ’72 firmata da Leonardo Sciascia e intitolata “La faccia ferina dell’Umanesimo”.

«Mi colpì la figura di quest’uomo di grandissima cultura, che fu capace di vivere compiutamente vite diverse. Non è che fingeva di essere qualcun altro. Ogni volta che cambiava identità diventava davvero un’altra persona, con una capacità più che camaleontica. Non mutava solo colore della pelle, ma trasformava la propria psicologia e il proprio modo di pensare».

“Inseguendo un’ombra” tuttavia non è un romanzo storico, né una biografia. Ed è lo stesso Camilleri ad avvertire il lettore, attraverso degli intermezzi narrativi in cui lo mette al corrente del proprio desiderio di indagare le tante zone d’ombra nella vita di Samuel-Guglielmo-Flavio attraverso gli strumenti che gli sono più congeniali, quelli del romanziere. In un’opera che è quasi un manuale di scrittura, in cui l’autore spiega il perché di certe scelte narrative e di certe invenzioni, ma anche una sorta di esplorazione psicologica delle contraddizioni e dell’ambiguità dell’animo umano.

«Contraddirsi è vivere. Leonardo Sciascia pensava spagnolescamente alla morte e al fasto della morte, tanto che scrisse da sé la propria epigrafe: “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta”. Ma ne aveva pensata anche un’altra: “Visse e si contraddisse”. Sarebbe stata più giusta, piacerebbe anche a me. Quando ti trovi di fronte ad una personalità multipla come quella del mio personaggio, vedi contraddizioni spinte al livello estremo e capisci che la possibilità del cambiamento totale gli derivava dalla sua profonda cultura, somma appunto di culture contrapposte, anche se il pensiero ebraico rimaneva la riserva logica che adattava di volta in volta, mascherandola nelle forme adeguate».

Non sarà anche per questo che la cultura fa tanta paura al “potere”?
«Se è una cultura importante, per i potenti è sempre una nemica, a meno che non decidano di portarla dalla loro parte e di farsela amica. L’attuale guerra contro la cultura è dovuta ad una massa di gente che non ne capisce il valore e se la mette sotto i piedi. Come disse Cristo: “Signore perdona loro perché non sanno quello che fanno”. È gente affetta da un’ignoranza totale. Non bastano le citazioni per essere persone colte, la cultura fa parte del sangue che circola nell’individuo e la si può rispettare solo coltivando sin da ragazzi il sapere che un domani ti servirà. Ma i potenti hanno una visione ridottissima del futuro, per questo pensano ad erigersi tombe fastose finché sono in vita. Un poeta non ha bisogno di farlo, saranno i posteri a costruirgliela. L’unico dato positivo è che di solito i potenti chiamano grandi artisti per farsi erigere tombe che spesso sono vere opere d’arte». Sorride.

Attraverso la storia di una personalità multipla, Lei racconta un po’ anche la storia dell’uomo, che secolo dopo secolo per esempio persevera nelle guerre di religione. Vuol dire che non si impara mai dalla Storia?
«Si dice “Historia magistra vitae”, ma la Storia non ha mai insegnato niente a nessuno. È troppo mutevole, perché troppi sono i punti di vista per la sua interpretazione, spesso contrapposti. Non si impara dalla Storia ma dalla vita. E l’Ucraina, la Russia, l’Europa e l’America ne sono la prova. Se non c’è stata ancora un’altra guerra è perché ci fanno paura le armi che abbiamo. Senza contare poi che la guerra è contro natura, perché sono i genitori a seppellire i figli e ciò dimostra che appartiene al regno dell’assurdo».


Una caratteristica importante dei suoi romanzi è il gioco di contaminazione tra lingue e linguaggi, ma anche l’abilità con cui usa lo strumento del dubbio per tenere agganciato il lettore. Quanto si diverte a scrivere?
«Moltissimo! Lo sviluppo della lingua e la sua articolazione, il suo rinnovamento, sono fondamentali, altrimenti si correrebbe il rischio di rendere tutto inverosimile. Sin dal primo romanzo ho tenuto presente, all’inizio in forma inconscia, la mia esperienza di lettore e questo credo abbia fatto la fortuna dei miei libri, anche se nessun recensore fino ad ora l’ha mai notato. Io interagivo con i libri che leggevo e più un romanzo mi apriva varchi perché potessi entrarvi in profondità, più ero contento di farlo. Questo bisogno di interazione me lo sono portato nel mio modo di scrivere, lasciando che il lettore diventi parte attiva del mio lavoro, quasi fosse uno spettatore di teatro».

Lei ha sempre amato le sfide. L’ha fatto da scrittore e ancora prima da regista teatrale, il primo ad avere messo in scena in Italia Beckett, e da autore e regista di programmi culturali per la radio e la televisione. La sua esperienza televisiva sarà oggetto di un documentario di sua nipote Alessandra Mortelliti, “Andrea Camilleri, io e la Rai” al Bari International Film Festival. Perché oggi la cultura in tv è quasi un tabù?
«Perché si sottovaluta il telespettatore. Essendo oggi in Italia i fatti culturali elitari, si pensa che avrebbero un bacino di utenza ridotto. Così la televisione commerciale, che vive di pubblicità, opta per programmi di larghissimo consumo senza ambizioni culturali di alcun tipo. Mentre la televisione di Stato, che vive anche di canone e ha quindi dei doveri verso chi lo paga, dovrebbe infischiarsene degli ascolti e puntare su programmi culturali di valore per una platea che esiste e che potrebbe solo aumentare. C’è un errore di ricerca di mercato, il mercato culturale ci sarebbe ma serve il coraggio di farlo sul serio».

Anche la politica l’ha sempre vista parte attiva, da ultimo sulla questione della futura presidenza della Commissione Europea. Cosa si augura per l’Italia e che Europa vorrebbe?
«Per l’Italia vorrei intanto che uscisse dalla situazione infame in cui si trova, da questo profondo abisso in cui è precipitata con una disoccupazione al 13% che è una vera emergenza. L’Europa che vorrei non è questa, fondata solo sull’euro e sulle banche, strenuamente attenta ai bilanci. Oggi l’Europa traballa perché è l’euro ad essere stato attaccato e se l’Europa avesse avuto una vera identità comune avrebbe comunque resistito. Invece, le nazioni si comportano come fossero soci di una società per azioni, senza identità e senza tradizioni. Bisogna tornare a dare valore ai valori e non soltanto al denaro».

http://espresso.repubblica.it/visioni/2014/04/04/news/andrea-camilleri-e-il-fascino-dello-zelig-di-sicilia-1.159810